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Il Gruppo Alpinisti Piceni

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La sola roccia che conoscevo, quando venni ad abitare ad Ascoli, era quella degli scogli del Passetto, ad Ancona, dove avevo imparato a nuotare. E fino a 13 anni non avevo mai visto nemmeno le montagne, dalle quali fui subito attratto. L’ebbrezza dello sci, quella si l’avevo provata, attaccato a mio padre che sciava (sci di hickory con attacchi fissi e bastoncini di bambù), in un anno di particolare innevamento, sulla ripida via Battisti di Ancona.

Fu ancora mio padre a farmi conoscere la montagna portandomi a sciare, nel 1951, sulla Montagna dei Fiori; fino al San Marco, dove terminava la strada, si arrivava con il pullman di Procaccioli che immancabilmente si fermava sulla stretta curva dopo San Pietro – allora tutti giù a spingere – poi si saliva in fila indiana, gli sci sulle spalle incrociati coi bastoncini, dal Pianoro al Rifugio Paci, per fermarsi a sciare lì intorno, i principianti, sparpagliandosi gli altri sul vicino Giammaturo o sul Colle della Luna, a San Giacomo o alle “Tre Casciare”; solo pochi, che io guardavo con immensa invidia e ammirazione, si spingevano sino ‘alla croce’ della cima.

Un giorno qualche amico mi fa conoscere, sotto San Marco, il Dito del Diavolo: nel salirlo per la ‘normale’, slegato come gli altri, provo una sconosciuta e fortissima emozione sulla traversatina dopo il diedro.

logo gapNegli anni ‘50, accanto alle frotte di sciatori, compaiono personaggi strani che si dirigono al Dito del Diavolo forniti di corde, grandi chiodi forgiati a mano, pantaloni alla zuava; salgono arrampicando assieme, con corde da 20 metri di canapa comprate in piazza dai venditori di articoli agricoli, le stesse che servono a legare le vacche. Intorno al 1954 comincio anche io a frequentare il Dito con una certa assiduità, prima con un compagno di scuola, poi con Tito Zilioli, conosciuto sui campi di sci, e Luigi Fanesi: non sappiamo quasi nulla delle tecniche, ho ancora una foto che immortala il mio ‘secondo’ mentre mi assicura tenendo la corda con le mani in alto, come se stesse suonando le campane.

Qualcuno però sa come legarsi, assicurare, scendere a corda doppia: Tullio Pallotta, che frequenta il Dito sin dal 1945, insegna le tecniche apprese facendo il militare ad un gruppo di giovani, tra i quali il migliore tecnicamente è Dino Martelli, usando opportunamente una corda da arrampicata e pedule di feltro: è lui che apre ad Ascoli le porte all’alpinismo e anche chi approda da solo al Dito come Francesco Balena, Mario Lupi, Claudio Perini, Francesco Saladini ed altri, finisce coll’incontrarlo e prenderne nozioni ed entusiasmo.

Sul Dito del Diavolo, oltre che per la normale e la paretina sud, si sale dove i chiodi contrassegnano le due vie più difficili, “l’Elica”, di Tullio e la “Martelli”, da salire allora “a forbice”, una tecnica che permette di superare i tratti più difficili con la corda che, zigzagando tra i chiodi, fa un attrito enorme; più tardi Tito Zilioli apre una via sul diedro del versante ovest che presenta difficoltà di 6° grado e prova le sue non comuni capacità.

Nel 1955 Francesco Balena, da poco diplomato portatore assieme a Mario Lupi e Carlo Mariani nell’unico Corso del Centro Italia, porta Francesco Saladini e me sulla cresta NE del Corno Piccolo, lasciando a terra Tito che vorrebbe seguirci e che fa parte invece del piccolo gruppo – lui, Ignazio Castellani ed io – che nel 1956 comincia autonomamente ad arrampicare al Gran Sasso.

coperlina guida vettoreSaliamo itinerari brevi alle Fiamme di Pietra come la Ciai-Pasquali, che Tito percorre anche slegato, e la via dei Triestini, ma affrontiamo anche, Tito ed io, la nostra prima parete, la est del Corno Piccolo per il Primo Camino a Nord della vetta, dove rimedio una notevole strizza sulla roccia viscida all’entrata nella grotta.

L’ambiente vasto e complesso della montagna rispetto a quello limitatissimo della palestra ci fa capire che non è il caso di procedere “a vista” come al Dito del Diavolo. Ci occorrono le relazioni tecniche, ma poiché la Guida del Gran Sasso di Vittorj-Pietrostefani è introvabile, me la faccio prestare da Silvio Jovane della SUCAI Roma e la copio tutta su un quaderno.

Sempre nel 1956 Tito ed io percorriamo al Pizzo del Diavolo (Sibillini), guida dell’Appennino Centrale di Landi-Vittorj alla mano, la Direttissima al Colletto del Gran Gendarme, non più ripetuta dopo l’apertura nel ‘34: all’uscita Tito, invece di traversare a destra sulla parete, tira dritto nella fessura-camino su difficoltà nettamente superiori a quelle dell’itinerario originale.

In queste nostre prime arrampicate l’entusiasmo è alle stelle, ma notevole è pure la mancanza di esperienza: è questa certamente a provocare la caduta di Tito, il 9 settembre 1956, da un attacco sbagliato della “Crepa” al Corno Piccolo. Pure accorgendosi che le difficoltà sono eccessive rispetto a quelle indicate per la via, Tito continua a salire, cade da 12 metri ai miei piedi, con grande shock anche mio, riportando solo diverse ma non gravi ferite. Dopo pochi mesi sarà sugli sci, prima sulle piste e poi in montagna.

Il 1956 è l’anno del contatto con la SUCAI Roma; frequento la Sapienza e da un avviso in qualche bacheca della Sottosezione Universitaria vengo a sapere che in autunno si effettuerà un corso di roccia. Mesi prima ottengo assicurazione verbale che potrò frequentarlo, torno all’università un mese prima dell’inizio delle lezioni (a casa, dove parlare di arrampicata è come parlare di suicidio, dico che sono state anticipate) per frequentare il corso di roccia, lo supero, conosco così, quali istruttori, alpinisti formidabili come Franco Alletto, un grande maestro, Paolo Consiglio, Silvio Jovane, Gigi Mario, Dado Morandi. Le maggiori difficoltà che supero nel corso sono quelle per convincerli a fornirmi le relazioni di tutte le lezioni teoriche; resistono a lungo ma alla fine, sotto il mio martellante assedio, cedono.

Nel 1957 seguono il corso SUCAI Claudio Perini e Pinetta Teodori, anche loro universitari alla Sapienza, mentre nell’anno successivo io supero il 2° corso, quello di alpinismo. L’incontro con gli amici della SUCAI determina un forte salto di qualità nell’alpinismo ascolano: è il passaggio dall’alpinismo improvvisato, fai da te, a quello serio, moderno. La montagna ci attira in tutti i suoi aspetti, estivo e invernale, gli orizzonti si allargano, il nuovo ci interessa anche in campo sci-alpinistico ed escursionistico: nel 1957 con gli sci, passando a destra del canale dei mezzi litri, in ripresa dopo la caduta, Tito sale con me il Vettore, poi il teramano Gigi Muzii porta alcuni di noi ad effettuare per la prima volta una indimenticabile traversata scialpinistica, quella “della Provvidenza” al Gran Sasso.

gruppoAttratti da montagne nuove e dal vagabondare sulle loro creste percorriamo, da Montemonaco ad Arquata, le creste dalla Sibilla al Redentore, scoprendo il piacere di camminare su itinerari sconosciuti e di seguirli mediante le carte topografiche, un modo di fare escursionismo allora inusuale, indipendenti da tutti. In agosto Tito si spinge più lontano effettuando assieme a Claudio Perini, con una tenda pesantissima sulle spalle, una lunga traversata della Majella, da Pretoro a Taranta Peligna per il Monte Amaro.

Dopo la caduta sulla Crepa, nell’estate 1957 Tito torna ad arrampicare al Gran Sasso ed al Pizzo del Diavolo con Fernando Di Filippo, me, Claudio Perini e Francesco Saladini su vie più e meno lunghe e difficili, mostrando d’essere ormai il migliore tra noi; percorre così una quindicina di vie, numero notevole per quell’epoca anche in considerazione delle difficoltà per raggiungere con i mezzi le montagnee.

In una di queste salite, la via del camino sulla Est del Pizzo del Diavolo, aperta da d’Armi e Maurizi nel 1932, viviamo un’autentica avventura. Ci leghiamo in 3, Tito, Claudio ed io, con una corda da 24 metri e salendo incontriamo difficoltà molto superiori a quelle di 2° grado dichiarate dalla guida dell’Appennino Centrale; è Tito a passare per primo in quel camino strettissimo che dà nome alla via, un vero budello dove si sale solo puntando le ginocchia seguìto da un canale colmo di ghiaia e sassi, gran parte dei quali finisce inevitabilmente sulle nostre teste: 2000 metri di dislivello con 400 di arrampicata, 20 ore da Arquata ad Arquata con rientro in paese a mezzanotte, giusto in tempo per evitare la partenza delle guide Lupi e Balena in nostro soccorso il che, per i rapporti che c’erano con il CAI, ci avrebbe marchiato a vita di disonore!

Grande è il nostro desiderio di arrampicare, ma anche di organizzare, di incontrarci in una sede che il CAI non ha; per le nostre aspirazioni ad un vero alpinismo sono intollerabili la retorica e l’inerzia di una Sezione che non convoca assemblee, che riunisce solo 2 direttivi – e solo per deliberare un prestito necessario all’impianto della ‘Nordica’ a Forca Canapine – nel periodo tra il 1952 e il 1958, organizza a stento qualche gita sociale, soprattutto equipara la voglia d’arrampicare ad una pazzia pericolosa.

Sulla stampa locale chiediamo polemicamente un’assemblea, che viene convocata per l’11 febbraio 1958 e nella quale Saladini legge una mozione, firmata, oltre che da lui, da Danilo Angelini, Ignazio Castellani, Luigi Romanucci e me, che chiede alla Sezione di muoversi, di organizzare, di permettere ad Ascoli, come è suo compito, lo sviluppo di quell’alpinismo che fuori di essa è innegabilmente cominciato; ma la chiusura culturale è troppo forte per essere intaccata, la richiesta viene respinta senza neppure una vera discussione.

Non era difficile prevederlo, quindi ci siamo preparati: il giorno dopo, 12 febbraio 1958, 19 amici costituiscono il Gruppo Alpinisti Piceni in una stanzetta del Palazzo del Popolo che l’Associazione Partigiani ci cede in virtù delle idee di sinistra professate da molti di noi – la sigla del GAP ci piace particolarmente perché copia quella dei Gruppi di Azione Patriottica operanti nella Resistenza.

Oltre che da giovani che arrampicano – ma c’è anche Fioravante Bucci, il mitico “vecio” che comincia a 50 anni – nel GAP si ritrovano escursionisti che per qualche motivo non legano col CAI come Danilo Angelini, eletto presidente, Orlando Micucci e Nerio Staffolani, qualche ragazza, soprattutto molto entusiasmo che sopperisce ai pochissimi soldi ed alla rarità dei mezzi di trasporto.

Ma il destino bussa presto alla nostra porta: il 30 marzo 1958 Tito Zilioli, segretario del GAP da meno di due mesi, muore stroncato da un collasso cardiaco durante la discesa dal Vettore dopo avervi effettuato in condizioni ambientali proibitive la prima ripetizione invernale della via del canalino assieme a Claudio Perini, Francesco Saladini e Pinetta Teodori: è un colpo durissimo, tutti perdono un amico intelligente, serio e capace, io il compagno di corda che in una attività di oltre mezzo secolo ho sentito più vicino.

Il triennio 1958-60, quello fuori dalla Sezione, è il periodo di massimo splendore per il GAP: i soci aumentano, si organizzano ogni domenica gite sociali al Gran Sasso o sui Sibillini, su diverse cime di questi ultimi ‘posiamo’ libri di vetta entro robuste custodie di ferro realizzate da Bucci, si allestisce una mostra fotografica dell’attività svolta, si chiama Walter Bonatti per una conferenza, si propagandano le iniziative sulla stampa locale. Ogni ascensione o escursione viene raccontata in una relazione scritta con orari, condizioni meteo e della montagna ed altre notizie utili a chi intenda ripeterla; sui nostri maglioni spicca la ‘patacca’ del GAP ricamata a mano – una ammiccante ciàula con corda e piccozza – e ogni giorno si passano ore in sede, e spesso nelle vicine osterie, a discutere di tutto. E con il confronto si cresce, tecnicamente ma anche culturalmente.

L’avvicinamento, quando non c’è il pullman delle gite sociali, resta un problema: non bastano il Guzzi “Galletto” di Danilo Angelini, quello di Bucci e la Topolino di Orlando Micucci (l’unica auto disponibile, nella quale si viaggia in 4 con gli zaini, stipati come acciughe), le montagne si raggiungono dunque con bus di linea fin dove arrivano, con mezzi di fortuna, in autostop, in bicicletta; si dorme in case private, a Pietracamela da Aladino Parogna, ma in mancanza di contante nei fienili, a Pretare è comodo quello sulla destra prima della piazzetta; si parte ben prima dell’alba, da Pretare, dopo aver cantato per ore nell’osteria di Arcangelo accompagnati dalla mia armonica a bocca e dai coperchi di pentola di “Pezzozza”, il simpaticissimo spazzino del paese, e a volte, da Pietracamela, affrontando 1900 metri di dislivello prima di ‘attaccare’ la traversata delle 3 Vette.

Malgrado queste difficoltà, anzi forse grazie ad esse, cominciamo ad ottenere risultati. Nell’agosto ‘58 Claudio Perini sale con me la prima nuova via di roccia ufficiale ascolana, la via GAP alla Punta Maria sul Pizzo del Diavolo; nell’autunno dello stesso anno realizziamo il primo dei corsi di roccia che nel ‘62 diverranno Scuola riconosciuta dal CAI centrale. Direttore del corso Dino Martelli, istruttori i tre di noi che hanno superato i corsi della SUCAI. Tra i 9 allievi Giuseppe Fanesi, Marco Florio, Giuseppe Raggi, Francesco Saladini, tutti già con esperienze di arrampicata. Nel luglio ‘59 accantonamento al Lago di Pilato per ripetere tutte le vie del Pizzo del Diavolo ai fini della pubblicazione nel 1960 della ‘Guida del Monte Vettore, a prova dei nostri interessi anche culturali. La prima puntata collettiva sulle Alpi, sempre nel ‘59, permette a 6 di noi di effettuare la traversata di alcuni 4000 del Rosa (Nordend, Zumstein, Gnifetti) e subito dopo a me quella del Cervino.

calbiani al cervinoIl 1959 è l’anno della migliore attività alpinistica del GAP: mai si è raggiunto, sino ad oggi, quel numero di salite, e con quell’entusiasmo, in rapporto alla scarsa esperienza ed al ristrettissimo numero di cordate. Alla fine dell’estate sono 5 le vie aperte dal GAP (4 dalla cordata Florio-Calibani e una da Saladini-Perini): quelle al Pizzo del Diavolo vengono realizzate in competizione col valido gruppo dei maceratesi ed è in questo clima che Claudio e Francesco, dopo avere attaccato sulla Nord il passaggio lasciato da D’Armi con un chiodo vent’anni prima, ma incapaci di superarlo per le abbondanti libagioni della sera precedente, si incastrano nella fessura impedendo in pratica di provarla a Giuliano Mainini e Mario Corsalini arrivati all’attacco con lo stesso obbiettivo; i due ascolani torneranno nel corso della settimana ad aprire la via.

Il 1959 è anche l’anno della scoperta del Paretone al Gran Sasso, ancora quasi inesplorato (Silvio Jovane e Gigi Mario vi hanno aperto la prima via, Lino D’Angelo e Clorindo Narducci la seconda): Marco Florio ed io, ora abituali compagni di cordata, dopo essere arrivati in autostop ai Prati ed avere bivaccato all’Arapietra ci avventuriamo sulla D’Angelo Narducci, la percorriamo in parte e saliamo poi una lunga variante nuova, oggi considerata via autonoma, raggiungendo Pietracamela di notte: un’avventura emozionante in una zona sconosciuta, grandiosa, con un vuoto di oltre mille metri sotto i piedi, dove torneremo più volte.

Mano a mano che cresce l’esperienza ci attirano le vie classiche poco ripetute, possibilmente in ambienti selvaggi, ma più ancora ci entusiasma l’emozione dell’alpinismo esplorativo: anche per questo siamo sempre più attratti da quella forma di alpinismo completo che è l’alpinismo invernale.

Iniziamo nel 1959 con la cresta di Galluccio al Vettore che percorriamo in 6 (Calibani, Romanucci, Florio e Saladini, Teodori, Perini, prima invernale) e dopo le prime invernali della Marsilii al Vettore (1960, Ugo Capponi e Romanucci) e della Nord del Pizzo del Diavolo (Raggi e Capponi, 1961), una salita lunghissima, in ambiente grandioso: la Iannetta al Paretone (1961, Florio e Calibani, prima ripetizione).

Di quest’ultima salita ricordo l’avventuroso avvicinamento in Lambretta, di notte, fino a S. Nicola, l’incontro in un fienile del paese con i sucaini Gigi Mario ed Emilio Caruso, insieme con i quali percorriamo il gran canale, infine il ritorno: il presidente del GAP Danilo Angelini, che ci è venuto incontro a S. Nicola, carica Marco sul suo Galletto, io seguo in Lambretta ma mi addormento e vado a sbattere contro un muro; Danilo, non vedendo i miei fari, torna indietro a cercarmi lasciando a terra Marco che subito si addormenta …infine il ritorno in tre sul Galletto, uno solo sveglio.

Dietro a Marco riesco a realizzare due difficili prime invernali, quella alla Gervasutti, nello stesso 1961 e, in due giorni del 1963, la più bella e difficile invernale della mia vita, quella della cresta Nord della Vetta Orientale al Gran Sasso: ricordo Marco sopra la mia testa con le punte dei ramponi conficcate su croste di ghiaccio verticali, il bivacco sulla cengia nella tendina ancorata ai chiodi e la bufera del giorno dopo, con la montagna che si caricava pericolosamente di neve e le slavine che spazzavano i pendii.

Con la riunificazione al CAI, nel 1961, il GAP perde man mano la propria individualità e lo spirito di corpo, ma non la spinta all’alpinismo, che anzi cresce: ho già detto delle principali invernali di Marco, a cui va anche il merito di avere ripetuto, per primo nel GAP, alcune delle più difficili vie di roccia del momento al Gran Sasso (Via dei Pulpiti, Monolito, Spigolo a destra della Crepa), e di avere dato un contributo all’esplorazione del Pizzo del Diavolo e del Gran Sasso con una serie di vie nuove; a Peppe Fanesi, che sarà nel 1968 il primo istruttore nazionale di alpinismo delle Marche, va riconosciuto il merito di aver riscoperto dopo trent’anni, assieme a Francesco Bachetti, la temuta nord del Camicia (1967) e la est del Pizzo Intermesoli con vie nuove (1968-70) sui Pilastri di centro e di sinistra; Bachetti apre a sua volta con vari compagni una lunga serie di vie sul Corno Piccolo che, per molto tempo sottovalutate, presentano in realtà le difficoltà alpinistiche più alte tra quelle aperte in quegli anni dagli alpinisti del GAP.

La Scuola di alpinismo del GAP svolge, coi suoi corsi di roccia, l’importantissima funzione di diffondere ad Ascoli un alpinismo moderno che continuerà a crescere verso orizzonti sempre più lontani: prima con una serie di accantonamenti e di campagne alpinistiche si realizzeranno salite in alcuni dei principali gruppi delle Alpi Occidentali, Centrali e delle Dolomiti, poi ci si spingerà fuori Europa con le spedizioni nel Gruppo del Munzur in Turchia (1970) e nell’Hindu-Kush in Afganistan (M6, 6138 m,1972).

Chiudo queste note sottolineando che nel GAP l’alpinismo ascolano è divenuto, da attività individuale, esperienza di gruppo, come tale conosciuta a apprezzata nel centro Italia, e che in quegli anni per noi non esisteva un distacco tra il modo di andare in montagna e quello di comportarci in città e nella vita di tutti i giorni, tanto che ai più attivi tra noi i problemi sociali interessavano allo stesso modo di quelli alpinistici. Credo che se oggi la Sezione e le scuole di alpinismo e sci-alpinismo operano collegialmente in piena naturalezza, ciò affondi le radici nella ricchezza di idee, di confronto, di impegno comune di quegli anni così belli e lontani.

Maurizio Calibani


Fotografie

  1. Il logo del GAP
  2. 1968 – la prima guida alpinistica del Vettore
  3. 15.6.1958 – sulla cima del Pizzo dopo lo spigolo NE integrale: da sinistra Gigi Mario, F. Saladini, C. Perini, M. Florio, seduto Silvio Jovane
  4. 1959 – M. Calibani con Enrico Bomba sulla cima del Cervino