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Agner

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Agosto 2008, giornata uggiosa in Dolomiti, con Daniele e Max ci dilunghiamo in chiacchiere al nostro campeggio di fortuna in val Corpassa.

Di fronte a noi, ormai in tarda mattinata, due francesi escono dal camper e iniziano a preparare lo zaino: qualche rinvio, circa trenta metri di corda, imbraghi minimalisti, tuta alare, casco e paracadute.

Li immaginiamo diretti alla Torre Trieste a fare base jumping e i nostri discorsi si spostano sul nostro modo di vivere la montagna, fatto di zaini più pesanti (con trenta metri di corda, al massimo, ci facciamo tiro alla fune) e di un’attività più distesa (l’ansia da prestazione scatta dopo la montagna, in osteria).

agner1Noi, a quell’ora e con quel tempo, scegliamo di fare una passeggiata per vedere un po’ di montagne dopotutto, quando pianificavamo la vacanza, avevo chiesto a Daniele “Portami a vedere le Dolomiti, che non le conosco!” e lui mi ha portato a vedere la valle di San Lucano.

Provati dall’afa, con passo stanco e svogliato, ci dirigiamo al bivacco Cozzolino, passiamo sotto lo spigolo nord dell’Agner ed entriamo in una natura selvaggia ed anche un po’ soffocante; dopo un sentiero soleggiato tra il verde ora siamo su una pietraia grigia, c’è un nevaio sporco, pure grigio, e le ripugnanti pareti che ci circondano, completamente bagnate, svaniscono mille metri più in alto tra le nuvole scure.

Il tutto però ci affascina, a tutti e tre piace la wilderness e qui ce n’è tanta: da dove siamo non si vede strada o abitato, il sentiero è ormai scomparso e soprattutto non si sente alcun rumore.

Daniele in particolare ha un colpo di fulmine, lui, ex speleo, è attratto dagli orridi umidi e quando in discesa ripassiamo sotto l’attacco dello spigolo, tutto convinto Daniele annuncia “Attacchiamo di notte, ci portiamo questo, quello e quell’altro…”.

Eccitato com’è, neanche ha chiesto a me e Max se eravamo interessati alla salita.

Cerco di distoglierlo, argomentando col fatto che non siamo allenati, io in particolare, che mi sono fidanzato ad inizio stagione e la montagna l’ho vista poco, e poi non ho mai fatto una via lunga neanche la metà di quella e per di più il tempo non è bellissimo…tutto vano: ”Lo matto non se cura”, si dice al mio paese.

Prima di cena prepariamo gli zaini davanti all’osteria, poi dentro ci rimpinziamo secondo la regola “mangiamo oggi che domani non si sa”. A tavola c’è la solita discussione sull’orario di sveglia: io e Max siamo per dormire almeno un po’, Daniele invece, fedele al motto “Il vantaggio salva il lepre”, propone prima le quattro, poi le tre e mezza, poi le tre.

Alle due e mezza del mattino, visto che lui non può dormire, bussa al finestrino della mia auto ribadendo “il vantaggio salva il lepre!”…se lo prendo ‘sto lepre…

Dopo colazione i miei compagni partono a razzo su per la salita; Daniele ieri era vecchio e “mo s’è scordato”, io invece come sempre a freddo tribolo.

Alle quattro e mezza siamo all’attacco.

Lo zoccolo è ingombro di terra, pini mughi e muschio grondanti acqua, ma per fortuna Daniele, spinto dal suo lato speleo abituato al viscido e al buio, annuncia “Vado io!”.

Dopo l’alba siamo ancora impegnati tra erba scivolosa e alberelli che ce la mettono tutta per ostacolarci, costringendoci pure a gattonare…a questo punto dimentico di essere ambientalista e desidero solo una motosega, dopotutto, per fare la grappa, di mughi ne servono pochi.

agner2Max intanto imita Corona “Camminare sui mughi scalzi fa bene alla circolazione!”.

Quando arriviamo alla roccia pulita siamo già stanchi e soprattutto morti di sonno, poi, dopo qualche tiro un po’ troppo difficile e con nessun segno di passaggio, ci rendiamo conto di avere percorso delle varianti: stavamo infatti seguendo una relazione scaricata da internet molto dettagliata ma (fa anche rima) sbagliata; d’altra parte però, quella ufficiale della guida era un po’ vaga: per una via di 1600 metri, la relazione era lunga come quella di una via delle Spalle!

Vengono a galla le nostre carenze di alpinisti “moderni”, abituati a difficoltà tecniche più elevate ma con scarso senso dell’itinerario: sicuramente Gilberti e Savorino nel 1934, durante l’apertura di questa via, hanno fatto meno avanti e indietro di noi!

Quando poi, per seguire dettagliatamente la relazione errata, mi perdo su una placca verticale completamente evitabile, mi convinco che è ancora lungo il cammino per diventare un vero alpinista.

Continuiamo la scalata godendoci la salita molto bella e varia, su roccia quasi sempre ottima, senza negarci uno spuntino, una foto o la contemplazione di quello che ci circonda, senza fretta, tanto non serve. Nel pomeriggio sono spossato, ormai abbiamo fatto più di trenta tiri! Ad un certo punto Max legge la relazione e dice “Beh, non manca molto…” e Daniele, aprendo lo zaino, “Aspetta, manca un’altra pagina!”.

Alle sei e mezza decidiamo di fermarci e preparare il bivacco: ci sono ancora molte ore di luce, ma qui è comodo e sopra la parete è verticale, meglio non rischiare di dormire scomodi.

Mangiamo pane e formaggio poi, dimentichi del nostro ruolo di rudi alpinisti, rompiamo l’isolamento chiamando col cellulare le fidanzate, perché non basta il bellissimo tramonto a scaldarci il cuore.

Tutto attorno a noi è irreale, la luce ormai radente accende di nuovi colori le montagne e le nuvole lontane, le pareti della Torre Armena di fronte a noi, prima in ombra, ora si mostrano: sono stranissime, piene di nicchie rotonde come una gruviera.

Daniele e Max hanno il sacco da bivacco io il sacco a pelo così, mentre loro passano una notte insonne, io infierisco con il mio proverbiale russare…questo a loro dire, io non ricordo. L’alba è bellissima ed iniziamo subito a salire di gran lena; l’arrampicata è più continua, ma la linea è evidente ed è difficile sbagliare, anche per noi!

Ora siamo sulla parete sommatale, sembra di essere sulla est del Corno Piccolo per la bellezza del calcare, solo che sotto c’è un salto alto quattro volte tanto; da qui si vede il parcheggio, con tutto il percorso macinato ed io mi sento ancora più stanco nel realizzare il viaggio fatto.

Tuttavia si sale, d’altronde ormai è l’unica cosa da fare. Il diedro di VI-, che in un altro posto non avrebbe impegnato come un VII, mi svuota e per concluderlo sono costretto ad appendere lo zaino lungo il tiro ed appendermi pure io per riposare: che pivello! Poi una placca appoggiata a buchi molto divertente fa tornare la mia autostima a livelli accettabili.

A Max toccano gli ultimi due tiri molto esposti con dei punti decisamente rotti “Mi sono informato, qua la roccia è rotta” dice lui; arriviamo ad un cengione, poi altri cento metri in conserva e finalmente ci sleghiamo.

Giunti sulle ghiaie al termine delle difficoltà possiamo decidere: fare la cima o scendere; all’unanimità scegliamo la seconda opzione, visto che dobbiamo scendere per 1800 metri di dislivello su un altro versante e siamo cotti.

Chiamo mia madre, che da due giorni ha il telefono in mano: non conoscendo l’Agner aveva capito che ero impegnato sulla nord dell’Eiger, così la rassicuro “Lì non ci andrò mai!”, non è nei miei sogni.

Scendiamo prima per una ferrata poi per sentiero esposto, man mano la stanchezza svanisce, si vede che sono alla frutta ed è intervenuta l’adrenalina in mio soccorso, oppure, a forza di ridere e di scherzare (cosa in cui la cordata eccelle), l’ho dimenticata.

Una volta arrivati al raffinato rifugio Scarpa, arredato in stile belle époque, ci gustiamo birra, affettato e la compagnia di qualcuno estraneo alla cordata. La settimana seguente i miei compagni sono partiti, ma io sono ancora a campeggiare nella Valle di San Lucano con Isabella e guardando lo spigolo a mente fresca faccio delle considerazioni sulla salita e sul nostro alpinismo: la via non è di rilievo, è stata aperta nel ’34, non presenta tiri estremi da copertina e qualcuno l’ha anche salita in due ore e mezza, ma quello che conta dell’esperienza sono le emozioni, non il curriculum e grazie agli amici e all’ambiente straordinario sono state belle ed intense. Io faccio questo alpinismo fuori moda, senza rincorrere numeri, per il gusto di farcela, non di vincere e per vivere più intensamente le cose più belle che la vita ci dà.

Termino adattando le parole di Andrea Gobetti “la vita, potete scegliere di viverla alla televisione…oppure andando in montagna, luogo pessimo per lavorare, avaro per tirar fuori soldi, ma palestra del verbo essere”.

Guido Amurri


Fotografie

  1. 2008 – sulle bellissime placche finali
  2. 2008 – Max assicura Guido