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Storie dal paradiso

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28 aprile ‘96 – “Al rifugio Federico Chabod”

Siamo arrivati all’Alpe Pravieux, sono dieci ore che siamo in viaggio e non vediamo l’ora di sgranchirci le gambe, ci aspettano 900 metri di dislivello e uno zaino che sicuramente supera i dieci kappagi.

In circa un’ora siamo giù organizzati, nel frattempo il peso nello stomaco è aumentato, quello strano sformato di mele di Teresa si è messo nello stomaco come un blocco di granito. Il sentiero comincia a tirare presto e dopo un‘ora di zig-zag siamo all’Alpe di Lavassey, dove finalmente sotto un pallido sole pomeridiano, possiamo calzare gli sci e diminuire il peso sulle spalle. Il bosco di larici, man mano si dirada e tra una balza e l’altra guadagnamo quota. Francesco tira come una ruspa e non si ferma ad osservare il panorama, qualcuno più indietro invece se la gode. Arriviamo all’incantevole rifugio Chabod intorno alle diciotto, molto scaglionati e rintronati, siamo tutti sistemati in una grande stanza, cosicché il gruppo avrà modo di fare intima conoscenza.

29 aprile ‘96: “I crepacci del Laveciau”

enrico1Una sveglia suona alle quattro, è decisamente molto presto. Oltre la suoneria inizia una scarica di flatulenze che rimbomba da una cuccetta all’altra. Alle cinque sono più di una le sveglie in allarme, ma affacciarsi alla piccola finestra è come avere la sensazione di essere caduto in un bicchiere di latte.

Si torna a dormire, ma rimane difficile riprendere sonno per via delle scariche che continuano in risonanza. Alle sei non ce la faccio più e vado alla finestra, sembra che il tempo sia più aperto. Dopo un po’ sono tutti in piedi a trafficare negli zaini. Fatta la colazione usciamo fuori domandandoci quale direzione è meglio prendere. Scendiamo in un valloncello sotto il rifugio, ma subito dopo aver consultato la carta ci accorgiamo di un errore di itinerario. Risaliamo faticosamente la morena del ghiacciaio di Montadyne, alla prima sosta il bilancio è di un’ora di ritardo sulla tabella di marcia.

Con un lungo diagonale a quota 3200, ci immettiamo tra i crepacci del ghiacciaio di Laveciau, ogni tanto il sole fa capolino tra le nubi e i fantastici seracchi che ci circondano riflettono la luce come fossero diamanti. Poco prima della schiena d’asino il tempo si chiude e inizia a nevicare. Teresa, Luca ed io arriviamo al colle e decidiamo di aspettare gli altri per prendere una decisione. Mentre aspettiamo il tempo è peggiorato notevolmente, ogni tanto ci passano a fianco frotte di scialpinisti che scendono al rifugio Vittorio Emanuele.

Guardo l’orologio, sono le 14:00, la visibilità è ormai ridotta a qualche decina di metri, andare avanti non mi sembra il caso. Inoltre siamo abbastanza strippati per forzare il gioco. All’unanimità decidiamo di scendere, ma sorpresa… dopo nemmeno 100 metri di dislivello siamo fuori della nebbia. Anche se continua sfiocchettare il leggero strato di neve caduta ci fa godere delle stupende serpentine. I pendii che portano al rifugio sono sostenuti e il tutto ci ripaga delle cinque ore di salita sul ghiacciaio di Laveciau.

Arrivati al Vittorio Emanuele ci sistemiamo in tre accoglienti camerette, chiediamo al disponibile gestore di poter pernottare anche il giorno successivo, in modo da avere la possibilità di ritentare la cima del Gran Paradiso.

30 aprile ‘96: “I 4061 del Gran Paradiso”

Sveglia alle 5:00, dopo colazione cerchiamo di muoverci più rapidamente possibile ma prima delle 6,30 non riusciamo a puntare gli sci verso l’alto. Il manto nevoso è duro e di conseguenza la progressione con gli sci è abbastanza veloce, un ora dopo siamo sotto il primo grande balzo del ghiacciaio del Gran Paradiso. Aspettiamo Rino e Fabio in modo da compattare le cordate, nel frattempo un altro gruppo ci sorpassa e in un solo diagonale ci ritroviamo su un pianoro che porta al secondo balzo prima della schiena d’asino. Viaggiamo faticosamente anche perché c’è nebbia, vista e mente non possono spaziare e non rimane che concentrarsi sulle spatole dei propri sci o sulle code del compagno che ci precede.

Arriviamo a quota 3800 metri dove cavalchiamo la cresta di giunzione tra i ghiacciai di Laveciau e Gran Paradiso. All’improvviso un bagliore sembra accecarci, il sole scaccia le nubi e intorno a noi è uno spettacolo d’incomparabile bellezza. Il nuovo orizzonte di seracchi e picchi di granito ci da una spinta propulsiva indescrivibile. In un attimo siamo alla crepaccia terminale e dopo qualche metro alla sella nevosa tra il Roc e la vetta del Gran Paradiso. Man mano tutti calzano i ramponi e si avviano alla vetta; Stefano che sta davanti mi grida che occorre piazzare una corda affinché tutti possano arrivare in cima in sicurezza.

Dopo che tutti hanno esaudito il desiderio di abbracciare la madonna di vetta, torniamo indietro e iniziamo la discesa, il mal di testa dovuto alla quota avanza inesorabilmente e nel frattempo ha ricominciato a nevicare. La discesa non è godibile, neve e nebbia ci sbarrano la strada è un continuo fermarsi alla ricerca dell’itinerario più idoneo. Un gruppo di francesi ci segue, ritenendoci esperti dei luoghi, appena arrivati in rifugio si precipitano a ringraziarci per avergli fatto da guida. Il mal di capo adesso è più martellante che mai e non rimane che infilarsi in cuccetta a riposare.

Passata qualche ora, arriva Stefano a svegliarmi e mi annuncia che è arrivato Marcello Ceci da Pont per fare una gita in occasione del 1 maggio. Scendo velocemente le scale per incontrare Marcello e sulla porta della sala da pranzo ci abbracciamo calorosamente. E’ incredibile, il solo italiano presente al Vittorio Emanuele è ascolano come noi. Ci intratteniamo a parlare e intanto cerchiamo di programmare la gita per il giorno successivo, che secondo le previsioni meteo dovrebbe tendere al meglio. Decidiamo di salire la Tresenta e traversare poi in discesa fino al vallone di Seiva che porta fino a Pont. La sera a cena, nonostante il mal di testa non sia ancora passato definitivamente, trascorriamo una piacevole serata ripensando alla bellissima cima del Gran Paradiso. Il simpatico cameriere “Pupo” si improvvisa cabarettista e inizia a tessere una serie di esilaranti battute con Luca e Andrea. Più tardi, fuori del rifugio per la solita sigaretta digestiva, facciamo conoscenza con una guida tedesca.

Il tempo non accenna a migliorare e ogni tanto i tavoli di fronte all’ingresso si coprono di candidi tovagliati bianchi.

1 maggio ‘96: “Magica polvere”

in vettaDi buon ora ci alziamo e fatti i “bagagli” ci accingiamo molto lentamente a partire. I sacchi tornano a pesare sulle spalle, speriamo di lasciare al più presto sotto la neve il materiale superfluo, per poi riprenderlo al ritorno. Il vallone di Moncorvè, sale gradatamente verso la spettacolare piramide della Tresenta, al di là il ghiacciaio di Noaschetta non è visibile. Sulla sinistra in ombra i contrafforti del Gran Paradiso paiono delle mura invalicabili e sulla destra la straordinaria cupola del Ciarforon si illumina del primo sole mattutino.

Arrivati sotto il triangolo della cima non rimane che superare gli ultimi 500 metri di dislivello; Marcello apre le danze e prende di petto l’ostacolo che gli si para davanti. Noi attendiamo un po’ poi con due lunghi traversi iniziamo a guadagnare quota. Gli ultimi 100 metri alla vetta sono percorsi evitando i numerosi massi che affiorano dalla coltre nevosa. In cima verso sud-ovest, lo scenario è grandioso; ecco la Vanoise con la becca del Mont Pourrì e più a sud si distingue bellissimo il Monviso.

Facciamo numerose foto di gruppo, nonostante la densità di popolazione in quei pochi metri quadri della vetta. La temperatura è di poco sotto lo zero non stiamo più nella pelle al pensiero di goderci delle stupende serpentine su quella magnifica neve. Oltrepassata la “zona minata” delle pietre, con un traverso verso est, raggiungiamo il pendio da sacrificare sotto le nostre lamine. Un lungo respiro e via, tra gli spruzzi di polvere bianca. La discesa è esaltante e vorremmo che non finesse più. Dopo aver percorso il ghiacciaio di Moncorvè, ci avviciniamo al grande masso erratico che avevamo scelto per la custodia del materiale.

 

Lì troviamo anche Teresa che ci ha aspettato estasiata alla vista delle miriadi di serpentine sul versante nord della Tresenta. Con un leggero traverso in salita raggiungiamo il colle sotto la cresta nord-ovest del Ciarforon e attraverso il ghiacciaio di Monciar sfiliamo sotto l’omonima becca in un ambiente glaciale incantevole, fino ad immetterci nello smisurato vallone di Seiva. Qui facendo lo slalom tra grosse valanghe, riusciamo guadando il torrente numerose volte con gli sci ai piedi a raggiungere Pont, dove sotto il boato di ulteriori valanghe ci dissetiamo in un profondo boccale di birra.

 

2 maggio ‘96: “Il bel sentiero nel parco”

Dopo aver trovato alloggio a Cogne nella piccola pensione di Sylvenoire, ci svegliamo al mattino senza troppa fretta gustandoci il bel lettone dell’albergo. Il proprietario, nonostante manifestasse la voglia di andarsene al più presto (eravamo i soli clienti presenti), ci riserva una colazione degna della migliore tradizione turistica valdostana. Tanto è che una volta a tavola, facciamo razzia di tutto quel ben di Dio che c’è sopra. Dato che la giornata prevede solo la salita al rifugio Sella, decidiamo di fare una visita alle cascate di Lillaz, situate all’inizio dello splendido Vallone di Valleille.

Le cascate sono affascinanti, ma il tempo minaccia brutto e inizia a sfiocchettare. Tornati a Cogne saliamo verso Valnontey, ci prepariamo, ma a causa delle bizzarrie del tempo ci dilunghiamo alla riparazione degli sci sotto il loggiato di un chiosco. Appena si riapre un po’ partiamo. Dopo quindici minuti di cammino, Fabio si accorge di aver dimenticato ramponi e rampant: “OK! Ti aspettiamo”. Intanto gli altri cominciano a fare strada. Il sentiero è veramente bello e ben tenuto, d’altronde siamo nel cuore del parco e questo è ulteriormente dimostrato dai numerosi stambecchi che ci sfilano a lato del sentiero. Più in alto riusciamo ad osservare gruppi di camosci al pascolo e le marmotte che timidamente escono dalla tana. Intanto la neve si deposita sui rami dei larici, sui ciottoli del sentiero e sulla groppa degli stambecchi, questo mondo che ci circonda diventa più magico e irreale, sembra di vivere in una fiaba.

Le nubi si squarciano, la visibilità aumenta rapidamente, siamo intorno a quota 2300 metri, un lunghissimo traverso poi una leggera salita portano al pianoro dove è collocato il rifugio Vittorio Sella. Esteticamente non è il massimo, però all’interno è molto accogliente e in più il gestore è molto disponibile. Nel pomeriggio gli allievi insieme agli istruttori progettano e sviluppano la tabella di marcia per la gita alla Gran Serra, nel frattempo fuori continua a nevicare e si accumula uno strato di una trentina di centimetri. Dopo un‘abbondante cena, digerita a suon di grolla, usciamo fuori per una sigaretta e fantastica la luna appare in tutto il suo splendore accarezzando con una luce inverosimile in contorni del paesaggio circostante. È uno spettacolo appassionante, soprattutto pensando a domani e a quello che ci aspetta, qualcuno propone, “Partiamo adesso!” Non lo facciamo, ma andiamo a letto col proposito di svegliarci molto presto.

3 maggio ‘96: “La Gran Serra”

L’indomani alle cinque del mattino siamo già sopra gli sci e fin dall’inizio la giornata si prospetta davvero speciale; la Grivola dietro le nostre spalle è accesa dal fuoco dell’aurora. Avanziamo circondati da questo splendido scenario, mentre il sole avanza da oriente. Risaliamo il ghiacciaio di Loson per la morena centrale e superati i 3000 metri di quota entriamo in un immenso plateau dove i primi raggi di sole si rincorrono in un interminabile gioco di luci e ombre. Sulla sinistra del grande circo glaciale individuiamo il canalino che ci permetterà il passaggio al ghiacciaio superiore del Gran Val. Stefano batte la traccia e sprofonda fin oltre il ginocchio, stiamo in campana per il superamento del ripido tratto, dopo un’ora di “sbuff sbuff” siamo tutti al colle.

Al di là, lo spettacolo che ci si para davanti ai nostri occhi è a dir poco superbo; tutta la testata della Valnontey splende alle prime luci del giorno, il ghiacciaio della Tribolazione è un mare bianco increspato da scintillanti seracchi e tutto intorno una corona di candide cime. Stefano sembra programmato per la vetta, Andrea lo segue come un’ombra (lunga però), noi estasiati contempliamo ancora per un po’ questo effimero momento. Riprendiamo il cammino sulla profonda traccia nella neve polverosa, Andrea ha preso il posto in prima fila e batte la neve come un caterpillar. Intanto dalla cima della Gran Serra è venuto giù un bel lastrone. Occhio ragazzi! Cerchiamo di tenerci sempre su un percorso in sicurezza. L’ultimo pendio lo percorriamo seguendo la cresta sud della montagna fino sotto le rocce terminali della vetta.

Gli ultimi cinquanta metri li attrezziamo con una corda fissa, in cima il vento fa turbinare la neve caduta la sera precedente, al di là il ghiacciaio di Timorion gioca con le luci che filtrano attraverso le nubi. Uno alla volta arriviamo alla croce di vetta, siamo commossi e allo stesso tempo entusiasti del momento che stiamo vivendo. Ci aspetta una discesa memorabile, come al solito Stefano apre le danze e inizia una serie interminabile di serpentine, via via tutto il gruppo scivola verso il basso in una neve da film. Alla sella, che è il punto chiave della salita scendiamo uno per volta per limitare al massimo il sovraccarico del pendio. Ci tuffiamo nella polvere bianca con decisione, spruzzi di neve ci si infilano in bocca, mentre cerchiamo il respiro. La discesa continua tranquilla fino al rifugio dove sostiamo per mandare giù qualcosa nello stomaco e salutare Jan e i suoi amici.

Continuiamo con gli sci, mente qua e là si intravedono marmotte uscire dalle loro tane, all’alpeggio di Tramava riprendiamo il sentiero che ci riporta a Valnontey. Siamo appagati, soddisfatti, contattiamo telefonicamente Alessandro alla Caserma Monte Bianco per passare la serata insieme e festeggiare la fine di questo magnifico raid. Dopo una pantagruelica cena, annaffiata con un dolcetto d’Alba da brivido, usciamo dal ristorante ai “Tre galli” di La Salle sotto una pioggia torrenziale, riusciremo domani a realizzare il sogno nascosto nel cassetto?

4 maggio ‘96: “Nel castello di neve e di ghiaccio”

Sono già sveglio da un pezzo e non vedo l’ora di affacciarmi alla finestra per scrutare il gigante. Vado in camera di Stefano che mi ha sostenuto fin dal primo momento a realizzare l’idea. Insieme usciamo sul balcone della camera, le nuvole si spingono contro le guglie del versante italiano del Bianco, ma lasciano intravedere spiragli di luce. I pendii intorno a Prè Saint Didier sono tutti sbruffati di neve, in alto deve aver nevicato abbondantemente. Il tempo scorre… decidiamo, si và!

Passo in tutte le camere per svegliare i compagni, un’ora dopo siamo nel furgone e ci avviamo verso il traforo. Oltrepassiamo il lungo tunnel, al di là Chamonix si sta svegliando con i tetti delle case imbiancati e il cielo coperto da una coltre di nubi. Arriviamo al centro della “ville”, alla stazione di partenza della funivia per l’Aguille du Midi, alla biglietteria c’è già gente in attesa, guide e clienti tutte bardate per la partenza.. Buon segno. Dopo un po’ espongono il bollettino meteo in quota: oltre i 3400 metri, cielo sereno, assenza di vento e temperatura meno tredici. Elettrizzati dal pensiero di effettuare questa splendida traversata, ci prepariamo velocemente e come nei sogni… pluff ci troviamo in un incantevole scenario di neve e ghiaccio.

Siamo frastornati, usciti dalla stazione superiore della funivia ci avviamo al ponte che unisce le due cuspidi dell’Aguille du Midi, non riusciamo a credere ai nostri occhi, non riusciamo a capire… ci troviamo in un angolo di mondo incredibile in un momento indescrivibile.

Enrico Vallorani


Fotografie

  1. Oltrepassata la “schiena d’asino” il più è fatto: in direzione della Becca di Moncorvè consumiamo l’ultima porzione di dislivello verso il Gran Paradiso
  2. Traverso da brivido per raggiungere la vetta