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La Scuola di alpinismo e l’arrampicata sportiva

Non è per niente scontato che chi ama andare in montagna desideri pure che altri lo facciano. Non è per niente scontato che chi ha la passione per la scalata desideri insegnare ad altri come si fa. Anzi, tra gli alpinisti, come anche in me stesso, ho spesso notato il desiderio di conservare gelosamente l’abilità di salire le montagne, di preservarla come una preziosa capacità riservata a pochi coraggiosi. Meglio in pochi, non solo perché le montagne e i luoghi d’arrampicata sono più belli quando c’è poca gente, ma anche perché alpinista è una donna o un uomo fuori dal comune e non si capisce perché debba rinunciare a questa sua esclusiva particolarità per rendere comune e banale ciò che costituisce un’identità originale. La solita disputa tra montagna per pochi o montagna per molti.

La domanda che oggi mi pongo è: perché lavorare, da volontari, in una scuola di alpinismo? Naturalmente non ho una risposta, a parte la gratificazione narcisistica del sentirsi “istruttori”. Ho avuto la fortuna di iniziare ad arrampicare in un momento, per così dire, di intersezione: mi hanno insegnato la scalata Peppe Fanesi, Stefano Pagnini e altri “vecchi”, ma ho avuto un gruppo di coetanei (a parte gli uomini senza età come Tonino Palermi, Direttore ab aeterno della Scuola), con cui esercitare le nuove tecniche dell’arrampicata sportiva.

Una pura contingenza, una fortuna forse, che ha fatto sì che i giovanissimi introducessero le novità senza provocare scontri. Sicché dai vecchi credo che abbiamo ereditato una filosofia molto forte secondo la quale a scalare si va “insieme”. Non solo, perché abbiamo iniziato ad osservare già nei vecchi il gusto per la competizione, quel gusto, quasi un’esigenza, che obbligava a creare un gruppo allegro e giocoso ed allo stesso tempo organizzarlo stabilendo al suo interno una gerarchia definita sulla base di un solo criterio: la bravura nell’arrampicata.

Durante le discussioni si prestava maggiore attenzione alle parole dei “forti”, come se l’abilità alpinistica dovesse tradursi necessariamente in autorità intellettuale. Certo, questo mio modo di osservare i modi degli alpinisti deve essere stato influenzato da Peppe Fanesi, e nella Scuola, all’epoca del mio ingresso, funzionava ancora così. Oggi le cose sono cambiate e di “forti” non ce ne sono più: è finalmente l’epoca del divertimento, quella che ha avuto inizio con noi giovanissimi.

Cristian Muscelli