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L’ideale della montagna

Sono contento che Tonino mi abbia chiesto di scrivere qualcosa sulla nostra scuola di alpinismo, quella scuola che negli anni settanta/ottanta ha prodotto molto, pur consumandosi in liti e divisioni poi faticosamente ricucite. In fondo mi piace l’idea di fermarmi a riflettere un poco su ciò che quella scuola ha rappresentato per me e per quanti l’hanno conosciuta. Ma più che riflettere ora devo sforzarmi di non annegare nella deriva dei ricordi che, sicuramente, influenzerebbero il mio pensiero…

Immancabilmente ingenui, in quegli anni, abbiamo lavorato per trasformare uno strumento tarato per forgiare uomini di montagna in una sorgente di stimoli, sensazioni, idee, dalla quale, per mezzo di corsi più o meno coerenti ed organizzati, uscivano animali capaci di fiutare la montagna, capaci di una percezione intellettuale della montagna, capaci di coglierne gli aspetti che sono al di là del dato sensibile comune ai più. E, strano a credersi, siamo davvero riusciti nel nostro intento forse perché, seppure estremamente dubbiosi, pensavamo che in quella percezione intellettuale risiedeva la realtà della montagna e quella percezione era alimento per il pensiero.

In realtà, a quel tempo, io tutto questo non lo sapevo e forse non ero il solo a non saperlo, di certo, però, tutti lo sentivamo dentro e quel sentire era così forte, netto e preciso che, malgrado litigi e divisioni, la scuola in quegli anni oltre ad infondere negli allievi le basi teoriche dell’andare in montagna e ad ispirare il gesto tecnico, è stata capace di trasmettere loro l’ideale della montagna, perché, e mi ripeto, seppur inconsciamente, sapevamo della necessità di avere una visione capace di legare il vissuto e le speranze di ciascuno di noi in un discorso compiuto in grado di trascendere le esperienze personali e collocarci all’interno di un progetto più ampio.

Erano quelli anni pieni di speranze, anni in cui si teorizzavano dinamiche di trasformazione politico-sociale che avrebbero portato ad un mutamento improvviso e profondo, alla rottura di un modello, al sorgere di un nuovo mondo in cui noi ci preparavamo a vivere.

Non è andata così, peccato.
“Dov’è il vecchio violinista Jones
che giocò con la vita per tutti i novant’anni,
sfidando il nevischio a petto nudo,
bevendo, chiassando, non pensando né a moglie né a famiglia,
né all’oro, né all’amore, né al Cielo?”

Edgar Lee Masters

Stefano Pagnini