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Tito Zilioli

Tito Zilioli

1934 / 1958

Se alla serata in ricordo di un ventiquattrenne scomparso mezzo secolo fa arrivano, riempiendo la sala o non riuscendo ad entrarci, diecine e diecine di persone, vecchi ma anche giovani, se la Sezione CAI prende l’occasione per solennizzare il cinquantennale della Scuola di alpinismo avviata anche per suo merito, se si piange e si applaude, se c’è un nipote che si presenta orgogliosamente con lo stesso nome, se alla fine ci si lascia a stento, vuol dire che quel ragazzo è significato qualcosa per la città.

Tito ZilioliE, nella specie, per l’alpinismo ad Ascoli.

Tito è un giovane robusto con una pronuncia appena blesa, viso regolare, occhi chiari, aspetto più normanno che latino, tanto che nell’agosto 1955, in tenda con Claudio sulla Maiella, viene scambiato per tedesco nell’osteria di uno di quei paesi distrutti dalla guerra, un equivoco chiarito appena in tempo. L’educazione familiare, il padre è ufficiale dell’esercito, e probabilmente la pratica del mezzofondo in atletica, gli hanno insegnato che la vita va conquistata, che ci si deve porre degli obiettivi e prepararsi per raggiungerli; dunque è serio, riflessivo ma anche deciso, entusiasta quando occorre. “Iscritto a diciannove anni all’Università di Macerata, scrivono gli amici del GAP nell’opuscolo commemorativo della primavera 1958, Tito trova tutto il significato, tutti i limiti della propria vita in Ascoli … ma, in Ascoli, non lo appaga la routine monotona e vuota degli incontri sfaccendati; qualcosa dentro di lui ha bisogno di un impegno maggiore, di un respiro più forte che lo prenda senza lasciare nessuna parte di sé alla sonnolenza e alla pigrizia provinciali … nel Circolo Universitario, di cui è Consigliere, l’incoerenza e l’assenteismo altrui lo fermano senza ferirlo; una via senza zone d’ombra e senza debolezze, se c’è, e dovunque sia, questo gli occorre; la cercherà, o dovrà costruirla; finirà con l’averla.

Intanto, segue i suoi studi con la serietà che mette in tutte le sue cose … il 30 marzo 1958, dopo cinque anni di università, non gli resta che un esame prima della tesi di laurea, già presa per giugno in diritto processuale penale. Con gli amici, degli esami racconta poco, e meno ancora parla di quello che farà dopo: non spreca parole, soltanto quando crede che il suo punto sia giusto lo sostiene fino in fondo, sino a renderne chiari gli ultimi particolari, e convinti gli interlocutori, e prima di tutto se stesso”. Ma non è, anche se riservato, affatto chiuso: subito dopo la sua morte una ragazza cerca Claudio, gli chiede se fossero legati insieme sul Canalino, gli svela commossa che ne era la fidanzata – mentre cinquanta anni, la sera della commemorazione, una diversa e ancora bella signora rivendica d’essere stata lei la corteggiata da Tito, dunque ancora più serio e gentiluomo di quanto lasciasse credere. Comincia ad andare in montagna nel 1953, o almeno è di quell’anno la prima foto che se ne ha, sulla neve della Montagna dei fiori. Nell’inverno 1954 partecipa al corso di sci tenuto per lo Sci-CUP K2 dal maestro Ernst Bertoldi di Bolzano; e lo sci occupa da qui in avanti tutte le sue domeniche invernali portandolo dalla Montagna dei Fiori a Forca Canapine e poi ai Prati di Tivo. Nel gennaio 1955 sale con Francesco Saladini al Vettore per la direttissima e, nell’estate, con lui e Gigi Gaspari al Gran Sasso, prima sul Corno Grande poi sul Piccolo per la Danesi.

Tito ZilioliA luglio e ancora ad agosto 1955 cerca di unirsi a cordate che salgono il Corno Piccolo per la cresta NE, ma non c’è posto per lui: e non perché non sia capace, se nell’autunno ripercorre tutte le vie della palestra ascolana del Dito del diavolo e ve ne apre una nuova. Nella prima estate del 1956 compie in 14 ore di marcia la traversata dei Sibillini da Momtemonaco ad Arquata per le creste della Sibilla e del Redentore; poi torna al Gran Sasso, “questa volta, riporta l’opuscolo, ad arrampicare sul serio”. L’8 luglio, infatti, sale da primo la Ciai-Pasquali con Ignazio Castellani e Claudio Perini e, da secondo, la via dei Triestini; in agosto si lega con Maurizio Calibani: dopo lo spigolo Bafile al Pizzo del Diavolo e il Primo camino a Nord della vetta sul Corno Piccolo, ambedue a comando alternato, è, il 9 settembre, la volta della Crepa.

Tito parte deciso ma, equivocando l’indicazione avuta da Fernando Di Filippo ancora nella parte bassa del Vallone delle cornacchie, punta ad un tetto sulla sinistra del diedro.

Non è la via giusta e le difficoltà superiori che subito incontra dovrebbero indurlo a desistere. Continua invece ad andare su, dieci, dodici metri: il desiderio di affrontare le difficoltà fino a raggiungere il proprio limite, questa molla primaria dell’alpinismo, continua anche quando quel limite è superato: Maurizio, che lo assicura ancora a terra, lo vede d’improvviso volare e precipitargli di schianto vicino, sui massi del Vallone; chiama aiuto, accorrono il dottor Muzii, lo stesso Fernando, altri; fortemente contuso in più punti, forse fratturato, in stato di shock, Tito però questa volta è salvo. Resta immobilizzato a letto per quasi un mese, ma già dopo pochi giorni spera, e scrive, “che sia il fisico che il morale mi permetteranno di ricominciare”. Nell’inverno riprende infatti la consueta attività sciistica e sci-alpinistica, compiendo tra l’altro, con amici di Ascoli e di Teramo, la traversata della Provvidenza da Campo Imperatore alla diga del Chiarino; e nell’estate del 1957 torna gradualmente ad arrampicare cominciando da secondo sulla cresta NE al Corno Piccolo e sulla Direttissima al Colletto del Gran Gendarme sul Pizzo del Diavolo per fare poi da primo la Chiaraviglio.

A luglio, nel corso di un campeggio ai Prati di Tivo con Fernando Di Filippo e altri amici di Teramo, compie diverse salite e tra queste la normale alle Spalle; continua poi da primo col Camino D’Armi alla Punta dei Due, la Ciai-Pasquali e il Primo camino a Nord della vetta: altro Camino d’Armi al Pizzo del Diavolo e ancora al Gran Sasso con la traversata delle tre Vette, la Valeria, la via dei Triestini. L’ultimo scorcio dell’estate lo vede da primo, al Pizzo del Diavolo, sulla direttissima al Colletto del Gran Gendarme: qui Maurizio gli scatta la foto che nel 1960 farà da copertina alla ‘Guida del Monte Vettore’ edita dal Gruppo Alpinisti Piceni con la dedica “a Tito Zilioli, compagno indimenticabile”. Nell’inverno, a gennaio 1958, Tito è con gli sci sulla Sibilla, in una giornata di bufera, e al Vettore traversando poi il Pian Piccolo per raggiungere Forca Canapine.

Guida VettoreTito è tra i giovani che concludendo la festosa e disorganica fase iniziale dell’arrampicamento ascolano avviata da Tullio Pallotta subito dopo la guerra, chiedono alla Sezione CAI di aprirsi all’alpinismo: ora si può cominciare sul serio, c’è un gruppo di primi di cordata abbastanza numeroso per la città, l’entusiasmo non manca, i rapporti avviati con la Sucai Roma garantiscono un minimo di base scientifica e organizzativa; tanto che al rifiuto dell’assemblea dell’11 febbraio 1958 segue immediatamente, il giorno appresso, la costituzione del Gruppo alpinisti piceni; e lui, che tra quei giovani è senza dubbio il più capace tecnicamente – è in realtà il primo ascolano a condurre in montagna su difficoltà superiori – ne è ovviamente il segretario. Per poco più di un mese e mezzo, il tempo per una gita sociale al Vettore in un giorno sereno e freddo di metà febbraio, l’ultima salita dalla quale potrà tornare.

Il 30 marzo 1958 Tito compie con Pinetta Teodori, Claudio Perini e Francesco Saladini, la prima ripetizione invernale della via del canalino al Vettore. E’ con l’emozione della perdita ancora viva che i suoi amici scrivono, per l’opuscolo commemorativo pubblicato dal GAP, il resoconto qui riportato quasi integralmente. “Quando ci troviamo tutti e quattro riuniti per la partenza è ancora notte fonda. Sono appena le tre antimeridiane: orario da ascensione seria. E per noi è molto importante, questa direttissima, una di quelle salite che si mettono in preventivo molto prima, con la quale si può chiudere degnamente una stagione invernale. La piccola macchina ronza sull’asfalto, tuffandosi di tanto in tanto nella bassa nebbia di valle. Parliamo delle cose di ogni giorno col pensiero lassù, alla montagna; le piccozze tintinnano allegramente, sembrano scandire il ritmo della nostra impazienza. Passano case, paesi addormentati sotto una indistruttibile quiete; ai margini del bosco la neve ci arresta, scendiamo: il Vettore ci mostra le sue altezze senza stelle: d’ora in avanti solo il nostro breve coraggio contro la sua immobilità silenziosa. Tito solleva il volto deciso e sereno verso la parete: “Si farà”, dice semplicemente. Sono le cinque. Sul dosso che si inerpica verso la fascia rocciosa il cerchio bianco della torcia elettrica ballonzola tra i giovani abeti del rimboschimento. Vicino, un torrente precipita a valle con fragore continuo; nessuna ha più voglia di parlare, questi momenti sono presi da pensieri ondeggianti, da ricordi, da immagini; per oggetto, la via da affrontare. E’ chiaro che non sarà facile, oggi; tuttavia sarà nostra. Anche ora, come sempre, è soprattutto la coscienza della presenza di Tito, forte e silenziosa, che non lascia alcun dubbio sulla buona riuscita dell’impresa. Lo ha detto lui, la faremo.

TitoLa torcia elettrica non serve già più. E’ giorno, con la luce tutto ritorna alle proporzioni di una realtà chiara ed immutabile. Si individuano i canali, i passaggi, si percorre la via più volte con gli occhi e con la mente. La direttissima è qui davanti a noi, ripida e bianca: la notte non l’ha cancellata per sempre. Nel canale che porta quasi fino all’inizio del colatoio tiriamo fuori le corde, ci leghiamo. L’operazione, benché usuale, restituisce anche adesso, come sempre, ai gesti la solennità di un rito denso di significato: ora le nostre azioni entrano in una dimensione sconosciuta alla vita di tutti i giorni. D’0ra in avanti non ci saranno persone e volontà distinte ma la cordata che le somma e le coordina tutte per ogni attimo della salita; poiché ognuno è indispensabile, ognuno è parte di quel meccanismo che ha bisogno di funzionare in ogni suo elemento per arrivare in cima.

Sotto il primo fronte di roccia ci fermiamo; la neve a ridosso della parete ha formato una profonda trincea nella quale è possibile riunirsi. Parte Tito per la prima tirata affondando e facendosi largo a colpi di piccozza. E’ felice: mentre ‘sfanga’ come uno spazzaneve ride rivolgendoci parole scherzose, poi scompare dietro le rocce, su per il camino ingombro di neve. Da qui, la salita non ci darà respiro. Va su Claudio per la seconda tirata, poi Francesco seguito da Pinetta, che sale senza il minimo impaccio. Comincia a nevicare lentamente, la montagna prende a difendersi. Un sibilo insidioso: alla nostra sinistra una slavina va giù velocemente per il colatoio appena percorso. Poco dopo ne cade un’altra, rombando a cascata per un salto verticale di roccia e perdendosi laggiù, verso valle; anche il vento comincia a levarsi, raffiche ci sferzano da ogni parte avvolgendoci in turbini di neve”.

Nell’imbuto sopra il camino le due cordate si riuniscono, piegano a destra per raggiungere una crestina; Tito, davanti, resta fermo a lungo, senza motivo apparente, a metà di un canale, nella neve fino alle anche; fa freddissimo, è pericoloso aspettare ancora, Francesco lo raggiunge, gli chiede, viene rassicurato, lo supera, Tito quasi subito lo segue: è forse l’avvio della tragedia, ma come saperlo? “Ogni tirata di corda un’ora; ma ormai non piegheremo. Dopo l’ultima, di Tito, una linea indistinta, forse solo un’idea: è la cresta ! Gridiamo il nostro hurrà più forte della tormenta, ci congratuliamo a vicenda, ridendo.

Non è ancora finita: sul crinale, la violenza del vento aumenta, diventa inaudita: le corde gelate che ci uniscono sembrano animarsi, rabbrividire sotto il soffio della bufera. La visibilità è nulla, gli abiti non sono altro che rigide acconciature di cartapesta incrostate di ghiaccio. Pare che la montagna non voglia rassegnarsi; d’un tratto un vento impossibile ci ferma, ci inginocchia; Francesco si volta per prendere fiato, scorge un palmo quadrato di metallo rosso incastrato nella neve, urla, ci raggruppiamo tutti. Sono le diciassette, siamo in vetta.

Dall’inizio della salita sono trascorse dodici ore. La sosta è di pochi secondi. Ci precipitiamo verso la sella, la tormenta diminuisce un po’, raggiungiamo in fretta la terrazza che sovrasta la fonte, tagliamo a destra verso Vettoretto. La visibilità, prima migliorata, diminuisce di nuovo: Tito, da ultimo, rallenta un pò la discesa. A Claudio, che gli chiede se stia male, dice di no, di avere fame. Ci fermiamo, ci raggruppiamo per aprire i sacchi, risponde con qualche difficoltà alle nostre domande asserendo di avere le labbra gonfie per il freddo. Riprendiamo il cammino, prima in piano poi in discesa, senza avere la certezza di stare sulla strada giusta. Infatti, ad una schiarita, vediamo molto sotto di noi il Pian Piccolo. Bisognerà tagliare a sinistra per raggiungere lo stazzo Petrucci. Tito mostra maggiori difficoltà nel camminare; Claudio, che gli è più vicino, lo incita, lo aspetta, infine lo aiuta tirando la corda. Pensiamo ancora che sia stanco.

Alle diciannove, centocinquanta metri di pendio da traversare in diagonale ci separano dallo stazzo. Tito è sempre più spesso fermo, non risponde agli incitamenti, i suoi occhi hanno una fissità strana. Claudio e Francesco lo raggiungono insieme più volte, lo aiutano sostenendolo, cercando di tirarlo. Ma egli chiede che non lo si tiri: “Lasciatemi”, dice, oppure “Che fate? Perché state qui?”. Evidentemente le sue possibilità di intendere e reagire sono molto alterate. Bisogna prenderlo per le braccia, portarlo; data la stanchezza questo è possibile solo per brevi tratti; Francesco gli ha tolto la piccozza, piantandola nella neve: rimarrà lassù. La notte sta scendendo; alle diciannove e trenta siamo a cinquanta metri dallo stazzo, occorre sbrigarsi; se Tito sta male l’unica possibilità di soccorso è a valle.

Adesso, a lasciarlo si abbatte sulla neve, senza conoscenza; Pinetta lo guarda, lo ascolta respirare; è sconvolta e dice con voce rotta che sta per morire. ” E’ lei, con la sua recente laurea in medicina, a rendersene conto per prima: unica donna del gruppo, ha solo qualche esperienza di escursionismo, certo non di ascensioni invernali: ma s’è comportata benissimo sin qui e ora regge la parte che la tragedia le assegna. “Lo trasciniamo ancora; infine siamo allo stazzo, a quota 2053 di Prato Pulito; qui si può adagiarlo sulla neve; il respiro è affannoso, intermittente, gli occhi non vedono più; intorno è buio, neve, freddo. Ci facciamo intorno a lui cercando di massaggiarlo, di scaldarlo in qualche modo. Francesco chiede a Pinetta di sentirlo ancora; si china: “Non respira”, dice. Ne ascolta il cuore, il polso.

Si rialza. E’ finito. Sono circa le venti del 30 marzo 1958. ” I compagni gli legano una corda intorno ai piedi, lo trascinano così, nel buio della notte, sino alla base del canale, lo lasciano dove la neve termina, a 1400 metri circa; portarne il corpo a spalla è impensabile. “Gli poniamo il suo sacco sotto la testa. Non c’è altro da fare. Scendiamo a Pretare, alle 22,30 siamo in paese. L’ascensione è terminata. Per Tito si concluderà l’indomani mattina, quando sette uomini della valle ed un Carabiniere lo porteranno steso su una barella di frasche nella chiesa del cimitero e sarà per tutti, e soltanto, un uomo di montagna, caduto in montagna”.

Insieme alla sua passione per la montagna, all’essere stato in un periodo cruciale il più capace del gruppo, all’avere svolto un ruolo primario nella nascita ad Ascoli dell’alpinismo come fatto sociale, sono certamente le qualità umane di Tito ed infine la tragedia che lo uccide, la prima, che scuote una città ancora ignara della bellezza e del rischio di uno sport tanto amato da divenire scelta di vita e di morte, a far si che mezzo secolo dopo la sala della libreria Rinascita si riempia di commozione e di applausi.

Come poche volte accade; come accade quando si ricordano i migliori.

Francesco Saladini


Fotografie

  1. 1956 – Tito Zilioli durante la traversata Montemonaco-Arquata
  2. 1956 – Tito Zilioli (Vene Rosse, Montagna dei Fiori)
  3. 1968 – Guida del monte Vettore realizzata dal GAP. In copertina Tito sulla Direttissima al Colletto
  4. 1956 – Tito sulla prima tirata della via dei Triestini (G. Sasso)