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SALITA AL CERVINO PER LA CRESTA DEL LEONE

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IL SOGNO PRENDE CORPO

I sogni si realizzano. Mai come nell’estate 2012 ho avuto questa certezza. Un’ascensione desiderata da molti anni, accarezzata col pensiero e pianificata tante volte, poi sempre sfumata perché far coincidere tutti i tasselli del puzzle sembrava ogni volta impossibile. Invece quest’anno si sono congiunte alcune fortunate coincidenze astrali, aiutate da un desiderio ormai spasmodico, e il sogno è diventato realtà: scalare la montagna simbolo dell’alpinismo, definita da Lord Byron “il più nobile scoglio d’Europa”. Il Cervino. Ho condiviso l’esperienza con due vecchi compagni d’avventura, Elio e Gionni, con i quali avevo partecipato nel 2005 alla salita del Monte Bianco per la via delle “Trois Mont Blanc”. Già da diversi anni durante le arrampicate estive al Gran Sasso sognavamo questa scalata, consapevoli che realizzarla non sarebbe stato facile. A metà luglio, dopo la salita al Monviso ho capito che il mio stato di forma era buono. La settimana successiva, la scalata dello Spigolo del Velo alla Cima della Madonna, nelle Pale di San Martino con Pietro e Andrea non ha fatto che rafforzare la convinzione sulla mia condizione psico-fisica generale ormai ottimale. Ho contattato Gionni e insieme abbiamo deciso che il momento era arrivato. Dopo uno sguardo attento alle previsioni meteo, stabiliamo che la seconda settimana di agosto ha delle buone chance per avere una finestra di bel tempo da sfruttare per l’ascensione. Decidiamo per martedì 7 agosto, ma il lunedì precedente dalle web-cam di Cervinia si vede chiaramente una bufera in corso: tutta la conca del Breuil è imbiancata da un sottile strato nevoso. Non ci rimane che aspettare altri due giorni finchè il bel tempo possa ripulire la montagna.

SI PARTE

Finalmente giovedì 9 agosto partiamo alla volta di Cervinia dove arriviamo a metà pomeriggio. Dopo esserci sistemati all’Hotel Breithorn andiamo rapidi all’ufficio Guide Alpine del Cervino per avere informazioni aggiornate sullo stato della Cresta del Leone. La signora Adriana Pession, già contattata telefonicamente diverse volte da casa, ci delucida sull’itinerario. L’ultimo terzo della via è ancora ben innevato, di conseguenza bisogna calzare i ramponi se si vuole stare in sicurezza. Torniamo in hotel dove prepariamo gli zaini per la salita, ma nonostante gli sforzi per stanare il superfluo questi risultano sempre pesanti.
Come faremo con questo fardello sulla schiena a passare sulla Cheminèe? Andiamo a mangiare in paese al “bistrò dell’Abbè” con questo interrogativo che ci ronza nella testa. La cena è un po’ pesante: gnocchi al gorgonzola, radicchio e una tagliata che non riusciamo a finire. La notte per me scorre tranquilla, mentre Gionni al mattino dichiara di non aver chiuso occhio. Spera di riposare nel pomeriggio alla capanna Carrel dopo l’avvicinamento. Nessuno di noi sa cosa ci aspetta. Lasciamo l’albergo e ci trasferiamo davanti all’Hotel Bucaneve dove ci attende il fuoristrada per il servizio taxi da Cervinia al rifugio Oriondè; ci fa risparmiare ben 800 metri di dislivello. Dopo quaranta minuti di sobbalzi arriviamo al rifugio, che si trova in una splendida posizione su tutta la Valtournenche, appena ristrutturato e aperto da soli quindici giorni. Gionni parte immediatamente per la Carrel, Elio ed io lo seguiamo con meno energia. Progrediamo tuttavia abbastanza speditamente e verso mezzogiorno siamo sul traverso sotto la Testa del Leone in direzione dell’omonimo colle.
Avvertiamo sul versante opposto scariche di sassi che rotolano giù nel canalone in direzione di Cervinia. Un nutrito gruppo di persone sta fermo proprio prima del colle. Avvicinandoci costatiamo che due alpinisti con la scritta “Guardia di Finanza” sulla giacca bloccano il flusso degli scalatori. Ci ragguagliano sull’opera di disgaggio che stanno effettuando due loro colleghi proprio sotto la Cheminèe. Per il momento non si passa. Dopo un po’ di attesa, dove avvengono altre scariche di pietre, ci fanno transitare, così riprendiamo la salita insieme ad altre persone che nel frattempo si erano fermate insieme a noi. Ci sgraniamo sulle prime rocce delle placche “Sailer”, ma dopo aver superato due canaponi ci raggruppiamo tutti sotto la corda chiamata Cheminèe, che pende nel vuoto. La guardiamo tutti con il naso all’insù, ed è tappo. Il primo del gruppo che affronta questo passaggio adotta la tecnica alla “Tarzan”; dopo tre tentativi, con sforzi sovrumani e incitamenti, riesce ad arrivare oltre lo strapiombo finale. Aver assistito a questa scena ci fa pensare che forse è meglio salire senza gli zaini addosso: li recupereremo prima della salita del nostro terzo di cordata. Proseguiamo per altre due lunghezze di canapi e di colpo ci troviamo sotto la terrazza del rifugio Carrel a respirare una nauseabonda puzza di escrementi. Arriviamo alla capanna intorno alle quindici, ma nonostante sia ancora presto costatiamo che già diversi alpinisti ronzano intorno alla cucina per fondere la neve e preparare da mangiare. Ci fiondiamo ad occupare le poche brande libere rimaste. Mi cambio la maglia sudata e mi rivesto abbondantemente, ma ho freddo, molto freddo, e mi chiedo se non sia la reazione del fisico dopo la salita. Cincischiamo tra la cuccetta e la terrazza, in quel momento accarezzata dal sole pomeridiano.
Da questo belvedere ammiriamo il ghiacciaio della parete nord della Dent d’Herens alla luce del tramonto, la parete ovest del Cervino con il naso di Zmutt e la splendida piramide della Dent Blanche. Paesaggio magico, che ci infonde energia. Nel frattempo cerchiamo informazioni sulla via da qualche guida alpina e dalle cordate che transitano al rifugio per scendere verso valle. Dobbiamo recuperare le forze per la salita dell’indomani, perciò ci concediamo una meritata sosta con una cena “luculliana” a base di minestrina in busta Knorr e un piacevole sonno ristoratore alla bella quota di 3840 metri. Continuano ad arrivare alla Carrel alpinisti di ogni parte del mondo e ora nella sala da pranzo è impossibile stare, tanto è il flusso di gente che si muove. Il freddo si fa sentire sempre di più, così sono costretto ad indossare tutto il vestiario che posseggo, sei strati sul busto e due sulle gambe. Alle ore venti siamo già in branda alla ricerca del sonno.
Io mi addormento subito (cosi riferisce Elio che giace al mio fianco). Avere la capacità di riposare ovunque è per me una sorta di potere, di grande utilità in situazioni come questa. Mi sveglio, è mezzanotte, sento la gente agitarsi intorno a me, veloci frecciate di luce mi percorrono. Tuttavia ho la sensazione di aver riposato bene. Provo a riaddormentarmi, ma non ci riesco. Elio continua a lamentare un mal di testa terribile, gli sussurro di prendere un antidolorifico, che ingurgita immediatamente. Il sonno non arriva, alle due e mezza le guide iniziano ad alzarsi e tirare giù dai letti i propri clienti, alle tre partono. Comprendiamo che non ci riposeremo oltre, così decidiamo di partire.

L’AZIONE DISSOLVE LA TENSIONE

Dopo una frugale colazione aspettiamo che un gruppo di cinque italiani ci preceda. Con loro c’è un esperto, Piero, accademico del CAI; è la quarta volta che sale sulla vetta del Cervino. Li seguiamo verso la “corda della sveglia” con l’aiuto della lampada frontale. Mentre aspetto che il mio compagno superi questo passaggio obbligato, una guida francese con il suo cliente mi sorpassa e sono costretto a fermarmi perdendo il contatto con Piero e la sua cordata. “Questo vuole passare!” grido a Gionni; lui concitato mi risponde qualcosa che non afferro. Dopo un po’ ancora la sua voce: “puoi venire”, mi lancio sul canapone e in un battibaleno sono sopra lo strapiombo per ricongiungermi a lui. Gionni mi dice: “ Se l’inizio è così non so come andrà a finire, questo primo tratto mi ha dato veramente una svegliata”.
Aggiriamo per facili cenge il versante meridionale della “Gran Tour”, superiamo uno spigolo esposto e seguendo i canapi entriamo dentro un canalone incassato tra le rocce, il “Vallon des Glaçon”. Al termine delle corde fisse ci spostiamo lungo una cengia verso destra, la percorriamo, ma questa si perde nel nulla… torniamo indietro, abbiamo sicuramente sbagliato. Vedo un canalino obliquo a sinistra che sale in direzione della cresta, dico subito a Gionni che potrebbe essere questo. Lui mi supera e comincia a salirlo. Poco dopo trova un chiodo con cordino, ma non sappiamo se siamo sulla via giusta. Nel frattempo, altre due cordate si infilano nella cengia già percorsa da noi. Perdiamo tempo per capire da che parte andare, fino a quando una guida di Cervinia con al seguito uno stuolo di gente non ci delucida sulla via da seguire: era il canalino con il chiodo che avevamo individuato circa un’ora prima. In un attimo superiamo la “cresta du Coq” e dopo un ripido salto ci infiliamo sulla famosa cengia esposta e inclinata verso Cervinia chiamata “Muvais pas”.
Proseguiamo sulla cengia fino ad un forcellino, oltre il quale si deve disarrampicare per giungere ai piedi di una placca dove dovrebbero esserci incise le famose iniziali di J. A. Carrel (ma noi non le vediamo), primo alpinista italiano a salire il Cervino per la cresta del Leone (17 luglio 1865). Scendendo su placche non facili arriviamo a lambire il ghiacciaio del “Linceul”, dove ripartono verso l’alto delle corde fisse in acciaio completamente sfilacciate. Su neve e senza ramponi aiutandoci con i cavi arriviamo alla loro fine, poi tenendo d’occhio una catena penzolante dalla cresta (Gran corde o Corde Tyndal), scaliamo facili rocce senza percorso obbligato, cercando di raggiungerla. Alla base riprendiamo fiato e superiamo di slancio quest’altro tratto atletico di circa venti metri. Arrivati in cresta, dal versante ovest della montagna siamo investiti da un forte vento, freddissimo, che ci toglie il respiro e ci fa battere i denti. Non rimane che muoverci, così da scaldare i piedi e diminuire la distanza che ci separa dalla cima. Scaliamo il crinale su placche articolate alternate a torrioni verticali da superare quasi sempre sul lato svizzero. Dopo un paio di cento metri di questo terreno sono completamente gelato.
Il sole è sul Pic Tyndal e non vedo l’ora di raggiungerlo per scaldarmi un po’. L’itinerario si abbatte di colpo, ma diventa difficile muoversi su una cresta nevosa sottile ed esposta, trasparente come una merlatura fatta al tombolo, sull’orlo di un abisso inquietante. Che facciamo? Mettiamo i ramponi? “Andiamo, andiamo, arriviamo all’enjambèe, poi si vedrà” dice Gionni con voce ferma. Questo tratto ci incanta con la sua delicata bellezza. Ne siamo avvolti e la percepiamo, nonostante la fatica. Ci troviamo a disarrampicare due torrioni lievemente strapiombanti, comunque protetti da ottimi ancoraggi, fino al termine della cresta, dove per mettere piede sulla testa del Cervino occorre oltrepassare uno stretto e ripidissimo intaglio che deve essere superato con una sgambata (enjambée appunto) su un birillo di roccia, per fortuna protetto da uno spezzone di corda. Messe le mani sulla testa del Cervino proseguiamo la salita su rocce gradinate coperte di verglas in cui bisogna fare attenzione, se non si calzano i ramponi, a mettere bene i piedi fuori dai tratti vetrati. Tutto questo fino al terrazzo denominato “col felicitè” dove iniziano i canapi che permettono di superare gli ultimi duecento metri di roccia verticale. Sullo strapiombo la celebre scala “Jordan”. Dopo aver superato la corda “Piovano” si effettua un traverso su una bella placconata spiovente e poi attraverso una sottile fessura chiamata “Gite Wentworth” si riguadagna la cresta per giungere infine sulla vetta italiana a 4476 metri. Sono le 11,20 del mattino. Dalla cima ci spostiamo una trentina di metri verso nord fino all’intaglio tra la punta italiana e quella svizzera per abbracciare lo scheletro metallico della croce di vetta.
Due foto due e poi viaaa! sulla strada del ritorno. Questa volta però calziamo i ramponi. Sappiamo di essere in ritardo sulla tabella di marcia di almeno due ore. Non vogliamo essere imprudenti; “la sicurezza innanzi tutto” dichiara lapidario Gionni. E così avviene, una serie di quattro doppie ci accompagna fino al “col felicitè”, poi la parete si attenua e possiamo proseguire di conserva assicurandoci a vicenda. Risaliti sulla cresta, dopo il passaggio dell’enjambèe al Pic Tyndal veniamo superati da tre francesi e nel parapiglia del sorpasso commettiamo un errore. Gionni, seguendo delle tracce sulla neve per evitare la risalita di un torrione, gira uno spigolo e si trova su una placca di neve in piena parete ovest, da cui la risalita sul crinale comporterà un passaggio strapiombante su roccia, piuttosto difficile con i ramponi ai piedi. La discesa prosegue poi abbastanza tranquilla, facendo un po’ di conserva e qualche corda doppia nei punti più ripidi, fino alla forcella della “gran corde” dove è giocoforza fare l’ennesima doppia per portarci sul versante meridionale della montagna. Sono le cinque del pomeriggio, ormai mancano poche centinaia di metri al rifugio, abbiamo la salita della “Gran Becca” in tasca e nonostante siamo alla quattordicesima ora d’impegno non dobbiamo mollare l’attenzione. Mano a mano che scendiamo appare alla nostra vista il lucido tetto metallico della Carrel e, poco a monte, Elio che in attesa del nostro ritorno si sbraccia per salutarci. E allora capiamo che questa salita non l’abbiamo solo letta, studiata, immaginata e sognata.
Ci siamo andati, ci siamo abbracciati, in vetta siamo stati travolti dalla commozione. E non importa se tanti altri alpinisti hanno vissuto o vivranno le nostre stesse sensazioni. Quello che conta è che noi in cima al Cervino ci siamo stati davvero.

Enrico Vallorani – 31 agosto 2012