Insieme a Giancarlo Tosti, quel ragazzo con qualche anno più di me
Erano trascorsi appena due anni dal rientro dall’M6, che già l’entusiasmo per questo genere di imprese extraeuropee spingeva alcuni dei protagonisti di quella stessa spedizone a progettare un ritorno in Afganistan con l’obiettivo di salirvi un altro seimila. Così iniziò il nuovo progetto per quella che si sarebbe chiamata “Spedizione Ascoli 75” per la quale ero stato chiamato a fare parte ma non di certo per la mia esperienza alpinistica; all’epoca avevo salito solo il Bianco e altre tre cime da 4000 metri durante l’accantonamento finale del primo corso di Formazione l’anno precedente. La meta, probabile era lo Shadock una montagna, inviolata, dell’Hindu Kush Afgano di poco più di seimila metri. Si sapeva ben poco di questa montagna qualche informazione Maurizio era riuscito ad averla dal padre Di Kurt Diemberger che aveva, a casa sua in Austria un fornitissimo personale centro di documentazione sulle vette extraeuropee. Diemberger padre per farsi capire da Maurizio quando lo chiamava al telefono, si esprimeva parlando un mix di lingue fatto di latino, italiano, spagnolo, francese, ecc. meno che il tedesco; insomma una vera e propria parlata mediterranea.
Il lavoro di preparazione, con riunioni periodiche presso la casa di Maurizio e Vittoria, che abitavano in un accogliente attico tutto sole sul Lungocastellano, mi entusiasmava. Qualche volta, di ritorno da Bologna, dove studiava geologia, vi partecipava anche Giancarlo.
Giancarlo era un ragazzo con qualche anno più di me e con il quale avevo solo condiviso due salite nell’accantonamento del primo corso di formazione; mi resi subito conto che bastava poco perché si stabilisse tra noi una particolare intesa. Nella primavera del ’75 i preparativi andavano avanti; ci eravamo allenati durante l’inverno effettuando insieme diverse salite al Vettore. Da alcuni amici romani, anche loro in partenza per una spedizione più o meno da quelle parti, avevamo ottenuto di poter imbarcare il grosso dei nostri materiali insieme ai loro su una nave in partenza per il Pakistan, risparmiando così un bel pò sui costi. Tutto era pronto, Luciano come presidente della sezione aveva persino scritto una lettera al presidente della commissione per l’esame di maturità dove chiedeva di anticipare la mia prova orale alla prima settimana di luglio per potermi permettere la partenza a metà del mese. Francesco nel frattempo aveva naturalmente studiato ogni dettaglio dell’impresa; si presentò, all’improvviso, un problema: Pinetta, che avrebbe dovuto ricoprire anche il ruolo di medico, annunciò il suo ritirò dalla spedizione. A quel punto ci ritrovammo in quattro e cominciò subito tra noi una encomiabile opera di convincimento reciproco che in fondo si poteva tranquillamente fare a meno del medico per una spedizione extraeuropea in Afghanistan, le cui strutture sanitarie erano ferme più o meno al medioevo.
Maurizio si rivelò subito un osso duro da convincere, ma comunque non si rinunciò alla spedizione; il più determinato fautore della partenza ad ogni costo era Giancarlo che dopo mesi di studio e di lavoro (si manteneva a Bologna facendo un lavoro pesantissimo) voleva partire comunque. Un successivo incontro, di quelli soliti a casa di Maurizio, fu aperto da una battuta di Francesco che mi fece “Adesso chi glielo dice a Giancarlo che non si parte più?” Pensavo scherzasse, in fondo ammiravo Francesco per tanti aspetti e soprattutto per quell’ironia intelligente e sempre pronta in ogni occasione di cui era naturalmente dotato, insomma di quelle battute che un po’ ti spiazzavano: invece mi accorsi poco dopo che non scherzava affatto e annunciò che fra pochi giorni sarebbe partito per la Grecia con Pinetta e che la “Spedizione Ascoli 75” finiva lì. Rimasi un po’ deluso, ma neanche più di tanto perché avevo sempre pensato al viaggio in Afghanistan, alla spedizione all’Hindu Kush come ad un sogno, ed in fondo niente è più usuale di un sogno che rimane tale e che non si avvera.
Nelle settimane successive affrontai l’esame di stato, sostenendo anche come primo della lista la prova orale, grazie alla lettera spedita a suo tempo da Luciano al presidente della commissione, poi me ne tornai a Spelonga pensando alla tranquilla estate che mi aspettava. La telefonata di Giancarlo che tornato da Bologna mi chiedeva di incontrarci ad Ascoli per pianificare una spedizione ultraleggera, mi giunse inaspettata e non ebbi il coraggio di confessargli che ormai mi ero adagiato sulla prospettiva di una tranquilla estate. Mentre mi recavo all’incontro con Giancarlo al bar Petrillo di piazza del Popolo riflettevo che in fondo avevo fatto bene a non dirgli nulla per telefono: la mia rinuncia era meglio annunciarla di persona. Ci sedemmo ad un tavolo sulla piazza sotto il sole di luglio; Giancarlo parlò subito dell’intenzione di salire il monte Ararat nella Turchia Orientale il Demavend in Iran, cominciando di getto ad esporre le sue idee sul viaggio, sulle tappe, su come organizzare alcuni aspetti della spedizione che ci avrebbe portato su quelle montagne di oltre 5000 metri. Mi saranno bastati si e no cinque o dieci minuti per abbandonare ogni idea di quella tranquilla estate che avevo prima in mente e cominciammo subito a discutere e pianificare alcune aspetti del viaggio che avremmo intrapreso assieme di li a qualche giorno.
La spedizione
Lasciamo Ascoli alle 8 e 15 del 20 Luglio 1975 diretti a Venezia, per prendere l’Orient Express, treno che parte da Parigi ed arriva in quattro giorni ad Instabul; alle 17 e 55 siamo a bordo, il vagone è affollato all’inverosimile, ci sistemiamo con i nostri due grandi sacchi da marina, stipati con una quantità enorme di materiali, nella zona antistante la toilette, che però dividiamo con una famigliola turca che rientra in patria portandosi dalla Francia una serie infinita di scatoloni. Passiamo due giorni in condizioni pessime e alle 14.30 del 22 luglio siamo alla stazione di Istanbul; abbiamo solo qualche ora per fare un giro per la città; alle 20.00 dobbiamo prendere il pulman che ci condurrà fino alla città di Erzurum a circa 1200 km di distanza nell’Anatolia Orientale a ridosso del confine con l’Armenia. Partiamo, viaggiamo tutta la notte, alle 10.30 del giorno successivo siamo ad Erzurum (conosciuta come Arzen dai romani). In città cerchiamo di raccogliere informazioni sull’Ararat; di questa montagna non sappiamo praticamente nulla eccezion fatta per qualche notizia turistica tratta da un opuscolo francese che Giancarlo è riuscito a procurarsi chissà dove a Bologna; notiamo, ma minimizziamo per tiraci su di morale, che nel depliant si parla della presenza di pericolosi orsi in quella zona. Raccogliamo altre notizie e veniamo a sapere che per salire l’Ararat è necessario pagare e richiedere un permesso alle Autorità di Ankara; la conclusione immediata, è che a noi non servono permessi (non siamo in grado di sostenerne il costo) e continuiamo l’avvicinamento verso l’Agri Dagi (nome turco dell’Ararat).
Il 24 mattina giungiamo in autobus nel paesino di Dogubejazit posto alle pendici dell’Ararat sul confine tra Turchia, Armenia (allora URSS) e Iran. Qui ci fermiamo un giorno, il tempo necessario per i preparativi, intanto Amhet il ragazzo “tuttofare” del posto in cui siamo alloggiati, ci ha procurato una vecchia Land Rover con autista. L’indomani partiamo presto a bordo del fuoristrada, il tempo è buono e l’auto comincia ad inerpicarsi e dapprima su tracciati sterrati, poi in fuoristrada saliamo fin dove è possibile; quindi scarichiamo i sacchi per cominciare a piedi la salita. Non sappiamo bene che itinerario seguire, la parte sommitale del monte è coperta, ci guardiamo intorno, Giancarlo fa il punto sulla situazione(chi se non lui che ha alle spalle già due spedizioni!), fidandoci dell’istinto partiamo. Siamo di ottimo umore in fondo solo sei giorni fa eravamo ancora ad Ascoli e finora tutto è filato abbastanza liscio; solo dopo qualche ora di cammino sotto il peso davvero esagerato dei nostri enormi sacchi cominciamo un po’ a preoccuparci; io sento tutto il peso, non solo del sacco, ma anche della stanchezza dei viaggi dello stress; penso, tra me e me, che in queste condizioni non ce la farò a mettere piede in vetta. Nella tarda mattinata notiamo a poca distanza da noi un uomo che sta scendendo portando a capezza un mulo. lo raggiungiamo, parliamo, facciamo conoscenza con Iusshef, pastore curdo nomade, che sta scendendo dal suo accampamento e alla fine contrattiamo il compenso per il trasporto dei nostri sacchi con il suo mulo e quindi si riparte.. questa volta, però, molto più leggeri. Nel primo pomeriggio arriviamo all’accampamento di Iusshef, veniamo accolti, scalzi, nella tenda del più anziano; ci offrono l’immancabile chai (tè,) latte di capra cose da mangiare, non ci tiriamo indietro e ci rifocilliamo a dovere. Si dimostrano sempre molto gentili; tutte le persone dell’accampamento ci sono intorno incuriosite dalla nostra presenza. Dopo i saluti e il rito della foto di gruppo riprendiamo a salire; Iusshef è con noi, ma soprattutto il suo mulo che si sobbarca ancora una volta il peso dei nostri sacchi. Incontriamo un secondo campo di pastori dove si ripete, per fortuna, il rito del chai, del latte di capra; qui, forse pensando che qualcuno di noi sia un medico alcune donne ci chiedono insistentemente di visitare dei bambini che stanno male, impossibile spiegare loro chi siamo veramente o peggio tirasi indietro; i piccoli hanno delle evidenti infezioni agli occhi e alla bocca forse dovute alla carenza d’igiene; Pinetta ci ha preparato con cura una grossa scorta di farmaci di ogni tipo, ma abbiamo portato con noi il minimo indispensabile ed il resto è rimasto in albergo. Mi tocca fare da medico, abbiamo con noi solo le pasticchine di Steridrolo per la disinfezione dell’acqua le tiro fuori e spiego ad una mamma che bisogna sciogliere le compresse nell’acqua e utilizzarla per lavare il viso ai bambini, altro non posso fare; non so se ne trarranno dei benefici, ma certo non aggraverò la situazione.