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Ghiaccio del Sud

grande di gorzano

“Per anni siamo passati nelle valli senza nemmeno notarle: oggi le loro brevi strutture rappresentano per noi una magnifica avventura esplorativa e conoscitiva; a volte l’ostinazione a cercare nella grande dimensione ci priva della capacità di vedere la piccola e di essere altrettanto felici su di essa”.

Questa frase è stata scritta da quello che è stato il più grande ghiacciatore italiano, Giancarlo Grassi, lo stesso che, dopo aver firmato le più grandi salite su ghiaccio delle Alpi, l’inventore dell’Hipercouloir, del Supercouloir, del Fantacouloir, dell’Overcouloir e delle più fantasmagoriche salite su ghiaccio del Monte Bianco, è venuto poi a morire in Val di Panico, si, quella compresa tra il Monte Bove ed il Pizzo Tre Vescovi.

grande di gorzanoE quella frase sembra essere stata pensata per noi, per tutti noi che per anni abbiamo frequentato il gruppo della Laga a piedi o con gli sci sulle spalle – era considerato un gruppo montuoso adatto soprattutto allo scialpinismo – senza vedere e nemmeno immaginare che la sua anima si nascondeva nei fossi. Dove d’estate, ma soprattutto a primavera, sulla sua roccia impermeabile, rumorose cascate offrivano uno spettacolo per nessuno, perchè nessuno le stava a guardare. Poi, d’inverno, nell’assoluta solitudine resa ancora più completa dal silenzio, lunghe scie bianche si insinuavano tra le rocce formando, in corrispondenza dei salti strapiombanti, alte e bianche stalattiti.

Se questo è potuto accadere è perchè le arenarie della Laga non si prestavano a salite su roccia.

“Quello a destra è il Vettore con i Sibillini, laggiù in fondo a sinistra si vede invece il Terminillo”, e le montagne in mezzo? “Niente, quelle non sono niente, si chiamano Monti della Laga” (C. A. Pinelli, presentazione del volume Monti della Laga, Guida Escursionistica). No, quella non era terra per l’alpinismo. Questo è il macigno che abbiamo dovuto rimuovere prima di accorgerci che proprio in quel “niente”, per ironia della sorte, si nascondeva l’ideale terreno di applicazione di quella che era allora la più moderna tecnica alpinistica: la piolet traction.

Il mio personale incontro con questa tecnica è avvenuto un giorno d’inverno del 1980 sulla cresta del Galluccio, al Vettore. “Prova ad impugnare la piccozza alla base del manico, e colpisci il ghiaccio con la becca” mi gridò Tito (Ciarma) vedendomi in posizione un pò precaria su uno di quei passaggi che solo noi eravamo in grado di trovare su una salita altrimenti piuttosto facile. La facilità e l’eleganza con cui mi tirai fuori, solo usando in modo diverso un attrezzo che usavo da anni, furono una grande sorpresa.

Quello che venne dopo è storia. Dieci e più anni di canali ghiacciati, neve dura, e poi grandi sfangate con la neve alla cintola con corde e chili di ferramenta nello zaino, alla ricerca delle mitiche cascate della Laga. Partenza di notte con le frontali, in alternativa freddissimi bivacchi nelle valli. Allo sparuto gruppetto iniziale (sostanzialmente io, Tonino Palermi e l’inguaribile Calibba) si vennero aggregando altri amici: Massimo Bollettini, Cristian Muscelli, Enrico Vallorani, Paola Romanucci, Claudio Sacripanti, Pierpaolo Mazzanti, ed altri ancora. Poi gli amici “esterni” Manilio ed Ignazio Prignano, di Nettuno, Stefano Ardito di Roma. Il 6 gennaio 1990, inverno freddo ma secco, ci fu un assalto a ventaglio nella valle del Castellano, quella di Fonte d’Amore.

Quel giorno “caddero”, attaccate da agguerrite cordate: La Regina, La Rocchetta, il Pianaccio, la Crisalide, le cascate del Peschio. Ma sarei incompleto se non citassi quello che può forse essere considerato il pioniere della piolet traction non solo ad Ascoli, ma forse in tutto l’Appennino: Tonino Mari. “Cinquant’anni da poco, ancora attivissimo, con Dario Cannella (58 anni) forma la coppia di ‘vecchietti’ più incazzati della zona”, così Tonino Palermi descrive il personaggio in un articolo su Marche e Montagne del ’98. Eclettico, difficile da classificare, “cane sciolto” di razza, Mari tenta, già nel 1980, di salire la più difficile cascata dei Sibillini, quella del fosso Le Vene, non riuscendo ad uscire in alto per pochi metri (la completerà nel 1985), ma affrontando difficoltà che i perugini Marchini e Gigliotti neanche si sognavano.

bivaccoNel 1988 proponemmo alla rivista “Alp” un articolo sulle cascate della Laga. Che anche al sud potessero esserci montagne non era ancora un concetto che poteva darsi per scontato in ambienti alpini, basti pensare che negli anni settanta, per giustificare la presenza di stazioni di soccorso alpino da noi, ci toccò inviare foto e documentazioni. Ma raccontare che potessero esserci cascate di ghiaccio in Appennino, non era solo inaudito: significava prendere la gente per fessa. Infatti la redazione, immagino tra sorrisi ironici, ci chiese di anticipare foto che giustificassero la richiesta di pubblicare su una rivista che faceva delle immagini il suo punto di forza. Quando Camanni (allora direttore di Alp) vide le belle immagini del Calibba, ce lo ha detto dopo, saltò dalla sedia. Certo che c’erano le cascate, e che cascate! L’articolo uscì, con foto a tutta pagina, e fece scalpore nell’ambiente alpinistico del centro Italia.

Sulla Laga cominciarono ad aggirarsi personaggi che mai si sarebbero sognati di frequentarla, e che incominciarono a fare i conti con le ben note difficoltà di orientamento, prima ancora che con quelle delle cascate. Avevamo creato un bisogno, e sentimmo per intero il peso di dover contribuire a soddisfarlo.

Fu così che l’assortito ed improbabile trio (Alesi, Calibani, Palermi) che aveva già all’attivo la Guida escursionistica dei Monti della Laga, nel 1994 si incaricò di riepilogare a fare ordine nella ricerca di ghiaccio di cascata non solo sulla Laga ma in tutto l’Appennino Centrale. Fu così “Ghiaccio del Sud, le cascate di ghiaccio dell’Appennino Centrale”, la prima ed ancora attualmente unica guida al ghiaccio di cascata a sud delle Alpi.

Il titolo era la risposta meridionale al libro “Ghiaccio dell’Ovest” del grande Giancarlo Grassi, che nel frattempo (1991) come dicevo all’inizio, fra l’incredulità generale, in terronia era venuto a morire, invitato da Paola Gigliotti, cadendo in solitudine da un salto ghiacciato dell’alta Val di Panico.

A cimentarsi con le cascate ad Ascoli furono poi un pò tutti. Quando lo fece Tiziano lasciò tracce indelebili, scoprendo ed inaugurando il severo Fondo della Salsa, alla base della parete nord del Camicia, con salite memorabili, tra cui la cascata più alta dell’Appennino (Bye Bye Canada, 200 m).

Ma la domanda sorge a questo punto spontanea: come si pone questa attività rispetto alle grandi ascensioni? Si rinvengono in questo gioco i tratti nobili dell’Alpinismo? Siamo insomma sicuri che sia una cosa seria? Lo abbiamo già detto nel libro: dipende. Dipende da dove è collocata la cascata, quanto è lunga, se è inserita in un contesto alpinistico di dislivello considerevole, insomma è un pò come la parete: può essere fine a se stessa (falesia) oppure raggiungere una vetta in quota. Un conto è, per stare a casa nostra, salire il primo salto della Volpara e poi scendere, un conto proseguire sugli altri salti per poi proseguire fino alla Macera della Morte e scendere sull’altro versante. Ciò che distingue il cascatismo dall’arrampicata su roccia, a parte la tecnica di salita, è il suo carattere effimero.

Il suo grande fascino è che si può prendere a piccozzate, e arrampicarsi decine di metri, su una materia che scomparirà forse in pochi giorni. Che la cascata cambia forma in continuazione, e si rinnova di giorno in giorno e di anno in anno, che su di essa non rimangono tracce, non si può spittare nè trapanare, che ogni volta si sale su terreno nuovo. Insomma, è la libertà fatta …ghiaccio.

Alberico Alesi


Fotografie

  1. 1989 – Alberico in apertura sulla grande di Gorzano
  2. Monti della Laga: uso alternativo di presa ENEL